wpe1.jpg (10576 bytes)

Rete Nazionale Sprigionare

WB01343_.gif (599 bytes)

LETTERA DI NADIA PONTI

 Ciao a tutti,

mi chiamo Nadia Ponti, ho 47 anni, sono nel diciassettesimo anno di carcere, condannata all'ergastolo per fatti riguardanti la mia passata militanza nelle Brigate Rosse. E' bene precisare fin dall'inizio che ergastolo in Italia vuol dire fine pena mai.

Di questo incontro so solo che ex appartenenti alla lotta armata, in particolare tedeschi, l'hanno promosso per sostenere una soluzione politica per i detenuti politici ancora in carcere come in Italia e non solo. La mia amica venuta l'altro giorno a trovare in carcere me e il mio compagno, con un "ricatto" amichevole, mi ha parlato di questa iniziativa e mi ha detto: io ci vado, ma tu scrivi qualcosa.

E' il caso che dica perché "ricatto": odio scrivere, il farlo mi costa una fatica tremenda perché invece che uno sfogo per me è una mortificazione. E poi non ho più neanche vent'anni per gamba... e capita spesso di avere la testa occupata a sopportare dei dolori. Intendiamoci il corpo ha ragioni da vendere ad esprimere malessere, mi preoccuperei se stessi bene, ma ciò non toglie che mi crei dei problemi se devo scrivere in poco tempo. Il carcere divora le energie, e dopo tanti anni quelle rimaste le uso con oculatezza; ma qualunque cosa sarò capace di scrivere, consideratela anzitutto un atto di apprezzamento per quel che state facendo.

La prima cosa da dire è perché sono ancora in carcere mentre da molti anni potrei essere fuori libera o semilibera come la gran parte di coloro che hanno fatto parte della lotta armata in Italia:

per obiezione di coscienza.

Non per un attaccamento al passato, ma per rispetto della verità, per onorarla. E la verità è che l'unica scelta individuale in una organizzazione politica, è l'adesione al suo progetto, mentre gli atti compiuti non dipendono dalla volontà del singolo ma da decisioni collettive. La legge premiale consente di uscire dal carcere purché si neghi questa verità e ognuno affronti la sua sorte a prescindere dagli altri. Io non mi sento di collaborare ad un atto di ingiustizia, non potrei vivere sapendo di averlo fatto. Comunque la si pensi oggi, ciascuno con le sue diverse convinzioni, la sua coscienza individuale, siamo in carcere per lo stesso passato.

Per uscire di galera non posso distruggere dentro di me il senso degli altri, e non posso barattare le mie riflessioni critiche di quella esperienza per portare fuori dal carcere qualcuno che sarebbe il mio fantasma.

La critica a pagamento che deve tenere conto del gradimento di giudici, educatori, psicologi, criminologi, direttori di carcere, è priva di valore reale, non serve a nessuno.

La riflessione critica sull'esperienza di lotta armata svoltasi in Europa è quanto mai necessaria e urgente, per tutti, ma ho verificato in questi anni a mie spese che solo la libertà porta alla verità, e fintanto che ci sarà il carcere e penderanno conseguenze giudiziarie sulle persone che l'hanno vissuta non ci potrà essere verità.

Un'esperienza come la nostra che si è conclusa fra tradimento, abiura e infine addomesticamento, non ci dovrebbe essere bisogno di dire che non potrà mai insegnare niente finché ci sarà il carcere a condizionare ogni parola.

Continua a stupirmi ogni volta dover spiegare questa cosa, segno di tempi grigi. Anni fa, anni un po' meno melmosi di questi, sarebbe stato ovvio per chiunque, e non necessariamente impegnato o di sinistra, che la versione e l'opinione date da chi è fuori mentre altri sono ancora in carcere sono per forza addomesticate. Devo dire però che mentre anni fa avrei considerato volontaria una versione addomesticata da parte di chi badava a cavarsela per i fatti suoi, oggi capisco che invece è avvenuta all'interno di un processo incosciente che deve servire allo scopo ma che non deve apparire tale, che agli occhi di ognuno (e degli altri) deve avere delle giustificazioni "nobili" che non devono mai esplicitare l'interesse reale: uscire dal carcere.

Nel dire questo non c'è alcun astio personale verso altri. Sono sempre stata avversa a mentalità persecutorie. Sono stata fra i pochi ad essere tacciata da "arresa" e "destra" proprio da quelli poi usciti, per esempio perché avevo difeso chi aveva fatto ammissioni all'arresto sostenendo che era debolezza e non tradimento. E poi fra i pochissimi ad aver sostenuto che chi voleva dissociarsi era bene che lo facesse, perché è sempre meglio che uno sia libero di essere uno stronzo piuttosto che obbligato a fingere di essere ciò che non è. Tutto è meglio della menzogna e del conformismo. Venendo per questo nel corso del tempo tacciata dalle stesse persone da "arresa" prima, e da ottusa "irriducibile" poi, quando non ho voluto seguire la loro strada per uscire.

Parlo di queste cose perché sapere che ne è stato di chi ha vissuto un'esperienza serve ad arrivare ai problemi posti dal suo fallimento.

Avevamo ereditato da chi ci aveva preceduto l'idea della conquista del potere, del cambiamento in due tempi. Ma avevamo anche dato per scontato che una scelta che pensavamo senza vie di ritorno ci avrebbe automaticamente cambiati, avvicinati all'"uomo nuovo".

Non è stato così; come dice il mio compagno: "portare alle soglie della libertà l'uomo d'oggi vuol dire liberare l'alienazione e l'immaturità che sono in lui, e non già liberarlo da esse. Il ricorso alla violenza nascondeva in molti una dipendenza dal più remoto valore di questa civiltà del dominio: il risentimento, e non già la volontà di esserne al di sopra". E in realtà in molti all'origine di quella scelta non c'è stato il rifiuto profondo del modo di vita esistente, ma un sentirsene rifiutati, e questo è diventato evidente solo nel momento della sconfitta.

E se questo è venuto fuori solo a quel punto, significa che dentro quell'impostazione si poteva stare senza mettersi in discussione.

Quando è nata la lotta armata possiamo dire che è stato un tentativo disperato e certo ingenuo di difesa degli spiragli di speranza di un modo diverso di vivere che si sentiva chiudersi sopra di noi; in cambio di un aumento di stipendio e con la minaccia di licenziamento, con la repressione e il terrorismo delle stragi. Una scelta obbligata per chi voleva prendere un biglietto di sola andata per la rivoluzione, perché in Europa non c'è stato un movimento non violento che ponesse un'altra opzione per il cambiamento che non fosse opportunista, che non fosse un comodo paravento per non rischiare di persona. Come nella citazione di Gandhi ripresa da Martin Luther King: "Credo che quando la scelta è solo tra la vigliaccheria e la violenza, si debba scegliere la violenza."

La citazione di due uomini che hanno vissuto con sincerità e dando tutto se stessi nella lotta non violenta non è una citazione casuale, a me non importa niente di difendere la lotta armata, mi importa lo spirito, il grado di sincerità e di radicalità con cui vengono vissute le scelte. Per quanto possa apparire paradossale superficialmente, la violenza rivoluzionaria è più vicina allo spirito della non violenza, di ciò che è stata contrabbandata come non violenza qui.

Ma la vera critica deve servire ad imparare dagli errori, non servire a dire che la colpa sta nell'averli fatti. Si può dire che chi vede altri che stanno annegando si butta ma non riesce a salvarne nessuno ha sbagliato i calcoli. E possiamo pensare che il migliore è quello che si butta senza sbagliare, non quello che non si butta per non sbagliare.

Mi importa poter criticare fino in fondo spietatamente limiti ed errori, perché tutti i passi avanti che hanno fatto gli oppressi vengono dall'esperienza dei propri errori, ogni vittoria è stata il frutto di ciò che aveva insegnato una sconfitta.

Segno di tempi spenti che non venga sentito come un grave danno per tutti che chi ha vissuto quell'esperienza non possa esprimersi, che non si possa insieme - chi c'era e chi non c'era - andare a fondo ai perché non ha fatto fare passi avanti sulla strada della lotta alla logica del potere, ma è rimasto dentro ad una contrapposizione difensiva dentro quella logica. Abbiamo vissuto un sistema di pensiero che metteva così poco in discussione dell'esistente che il rivoluzionario che ha vinto ha potuto diventare a sua volta oppressore, e quello sconfitto, non avendo dovuto superare dentro di sé quella logica, diventa facilmente strumento di propaganda dei potenti che mirano a distruggere negli oppressi l'idea stessa della possibilità del cambiamento.

Un impianto ereditato dalla storia della sinistra: invece di superarne i limiti come credevamo, li abbiamo portati alle ultime conseguenze.

A cominciare dalla sinistra istituzionale che ha contribuito alla criminalizzazione di un'intera generazione. I cui politici ed intellettuali per non vedere i propri errori, non hanno avuto per i nostri di errori neppure un briciolo di quella ampia tolleranza che tanto hanno profuso per i potenti che - giova ricordarlo di questi tempi - sono sempre fino a prova contraria quelli delle stragi e del sistema di corruzione. Quelli che hanno costruito un mondo dove il 20% della popolazione consuma l'80% delle risorse, in cui ogni giorno milioni di persone muoiono di fame e di malattia. Che parlando di valore della vita per difendere tutto questo fanno e sostengono guerre in cui, asetticamente, basta schiacciare un bottone per uccidere centinaia di migliaia di esseri umani inermi, bambini, vecchi, donne. Per tutto questo sanno essere talmente comprensivi...

Quella sinistra tanto attaccata ai suoi piccoli privilegi di casta da non aver saputo immaginare altro che la repressione di fronte ad un movimento diffuso e all'espressione drammatica di un bisogno di cambiamento.

Se con estrema stanchezza, ritorno ancora qui sul passato è perché quando lo si rimuove, si ignora insieme alle persone in carne ed ossa il loro patrimonio di insegnamenti, e non si può progredire nel dare risposta alla questione chiaramente posta da un ragazzo diciottenne già nel 500, Etienne De la Boétie:

"vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data... vedere milioni e milioni di uomini asserviti come miserabili... perché sembra che siano affascinati e quasi stregati di fronte al solo nome di uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la forza, né amarne le qualità poiché si comporta verso di loro in modo inumano e selvaggio. ...Che ha in più (di voi) la libertà di mano che gli lasciate nel fare oppressione su di voi fino ad annientarvi ... a fare di voi dei servi volontari". (Discorso sulla Servitù Volontaria).

Se lo scontro per sottrarre e conquistare potere, non è stata la strada per trovare la soluzione a questa domanda, è nel sottrarsi al potere che bisogna cercarla, per strappare dal cuore e dalla mente la servitù volontaria di cui siamo tutti malati, così malati che il più delle volte non ci rendiamo conto di pensare come chi crediamo di combattere.

Una strada che non abbia "due tempi" né l'alibi di aspettare tempi migliori, senza le rigidità ideologiche escludenti - perché ognuno parte da punti differenti ed è normale che lo si esprima in lingue diverse -. In cui da subito ognuno si sottragga come non collaboratore di tutto ciò che contribuisce a far sopravvivere un sistema di dominio, diventando in modo costruttivo e non solo in negativo, un volontario costruttore della libertà di coscienza.

Nonostante sia poco visibile è il senso degli altri, quello che finora ha impedito la distruzione dell'umanità, e per quanto timido e confuso questo sentimento forte sta cercando strade per emergere.

A questo sentimento risponde parzialmente il diffondersi della pratica del volontariato. Non mi importa qui soffermarmi sull'uso strumentale che in gran parte se ne fa per tamponare e sostenere le difficoltà del potere, non sono ingenua da non saperlo, basti l'esempio delle comunità terapeutiche per tossicodipendenti, vere e proprie succursali delle galere e veri e propri business.

Quello che mi importa è che la rivendicazione fa del potere un feticcio, perpetua anche nella via rivoluzionaria quel bisogno di autorità che è all'origine della dannazione della servitù volontaria, per cui devi sempre aspettare qualcuno che ti dica cosa fare, e a cui poi addossare le colpe delle sconfitte. E' una falsa polemica quella che attribuisce ogni degenerazione politica alla cattiveria o al tradimento dei capi. Essa nasce anzitutto dal bisogno di autorità che proviene dal basso di un'umanità malata.

Nella molla all'origine del volontariato c'è la possibilità del superamento di deleghe e due tempi, in cui ognuno parte da quello che può fare lui da subito per sé e per gli altri, cambiando il proprio modo di vivere, rompendo la scissione tra il dire e il fare, praticando quello che sente giusto e non contribuendo a fare quello che ritiene sbagliato, assumendone su se stesso la responsabilità.

Insomma un esercizio di uomo nuovo nella realtà e non in intenzioni da verificare in un secondo tempo che non viene mai, una possibilità di "rivoluzione culturale" che auto-educhi alla libertà. In cui ciò che uno dice di fare per amore del bene comune non faccia di ognuno un firmatario di cambiali in bianco per altri o per sé già soddisfatto delle nobili intenzioni che dichiara.

Sì, lo so, questi sono discorsi che dai praticanti della politica a sinistra vengono tacciati di intimismo e sentimentalismo romantico dove invece ci vuole la fredda analisi. Una analisi talmente fredda da aver perso ogni riferimento all'umano in calcoli economici su improbabili compatibilità. Quella che ha seminato una mentalità forcaiola in un popolo che si crede di sinistra e magari non sa più riconoscere che il carcere ha la funzione di rimuovere la comprensione dei conflitti sociali, i soli conflitti che lo riguardano, non le beghe interne ai conflitti del potere. Che chiama rivoluzione il processare nei tribunali quella parte del sistema di corruzione diventata obsoleta. Che fa manifestazioni con catene umane che abbracciano i tribunali, che inneggia ai giudici come molti allora hanno fatto il tifo per la lotta armata. Sono pronta a scommettere che molti sono gli stessi, perché il tifo risponde sempre allo stesso meccanismo: delegare altri ad agire al posto tuo per soddisfare il risentimento verso i potenti, piuttosto che attribuirsi la responsabilità di averli seguiti.

Altri della sinistra che credono invece di stare dalla tua parte, pensano che pur con tutto il rispetto per i tuoi anni di galera queste sono vecchie questioni. E che questa faccenda del volontariato è frutto un po' del volerti attaccare a qualcosa e un po' della visione parziale a cui ti costringe il carcere.

E' vero lo sono, vecchie questioni di qualche migliaio di anni, se vogliamo. Il problema è il modo e l'intensità con cui si vivono, il trovare la via per fare i passi verso il loro superamento.

Come disse lo storico francese Michelet, innamoratosi di una donna e che per suo tramite ha amato la causa degli oppressi, in "Le donne della rivoluzione":

"Non ci sono cose nuove da scoprire, L'avvento di un'idea non è tanto la prima apparizione della sua formula quanto la sua definitiva incubazione, quando, accolta nel potente calore dell'amore, sboccia fecondata dalla forza del cuore. Di idee e sistemi abbondiamo. Quale ci salverà? Più d'uno può farlo. Dipende dalle circostanze... L'importante, il difficile, è che trovi un nucleo di buona volontà di calore di slancio e di sacrificio cosciente che rende viva la possibilità."

Vengo da una famiglia e da un ambiente operaio comunista, con loro ho conosciuto i sentimenti di solidarietà, la dignità e il rispetto della persona. Ma anche come questi alti sentimenti possono essere usati quando invece che alla coscienza si fa appello al fideismo, alla delega, alle rigidità ideologiche. E come da questo nasca la sfiducia in se stessi e negli altri che porta alla rassegnazione e non fa più riconoscere ciò che già è stato possibile.

E' proprio nel riconoscere nell'altro parte di te che prende forza la fiducia in se stessi, nelle proprie possibilità, da cui nella storia umana vengono i passi avanti di un modo diverso di vivere, quelli che si riconoscono facilmente vedendoli in ciò che ha liberato del destino degli ultimi.

Il divorzio, la chiusura dei manicomi, l'aborto, vengono da quel sentimento che ti fa sentire parte di un destino comune, di quel "il privato è politico" che tendeva a unire il dire e il fare. Da quelle case aperte dove trovare un letto in cui fare l'amore per chi non l'aveva perché sarebbe potuto capitare a te, e te lo trovavi magari occupato quando volevi andare a dormire. Dove trovava rifugio la ragazza incinta cacciata di casa. Dove litigavi furiosamente con un'amica handicappata grave, rischiando persino di non essere sensibile alle sue difficoltà tanto la sentivi uguale a te.

Oggi questa nostra scelta di obiezione di coscienza rifiutando di uscire attraverso il premio individuale, vive ancora nella solitudine. Anche chi ci è vicino pur rispettandola, si sente così sfiduciato da chiederci di rinunciare più che sostenerci e darci forza. Ma lo stesso riesco a non viverla come una scelta disperata. Il rapporto con il mio compagno - ciò che abbiamo vissuto insieme, mi ha fatto riconoscere in lui la mia stessa sensibilità, mi ha fatto sentire i miei limiti non come una vergogna di cui difendermi ma come la gioia di trovare nel rapporto con l'altro il loro superamento - è ciò che mi dà forza e dimostra costantemente che questa strada è possibile.

Non importa se, come mi è stato detto, condensata in così poche parole questa può essere presa come una patetica romanticheria, c'è sempre chi può capire di cosa parlo.

In quanto alla visione parziale indotta dal carcere, sarà vero anche questo, ma è uno spaccato dove tutto è più netto, dove puoi vedere a nudo la più grande abiezione come la più straordinaria resistenza umana.

Qualche tempo fa è arrivata in carcere una ragazza ventenne che si drogava da quando aveva tredici anni, viveva imbottita di psicofarmaci sempre inebetita da sembrare uno zombie. Ha voluto sapere da quanto ero in carcere e perché; saputo che avevo l'ergastolo per essere stata una "terrorista", mi ha stupita due volte, perché sapeva che per noi si parlava di indulto, e poi perché guardandomi mi ha detto: ma tu non ci credi molto vero?

Era vero, la sua intelligenza e sensibilità erano ancora lì dentro di lei sepolte dalle droghe che le hanno rubato la vita. Un miracolo straziante, che dice che l'umanità che nonostante tutto sopravviveva in lei meritava la lotta per un futuro in cui altri ragazzi non vengano derubati dalla chance che a lei è stata negata.

Nel carcere riconosci subito il senso e la potenzialità delle cose dal fatto che stimola la resistenza o facilita l'abiezione. E' un luogo "privilegiato" di sperimentazione.

In questi anni di carcere la solitudine sarebbe stata totale se non fosse stato per i nostri vecchi, e dei volontari. A loro devo la mia sopravvivenza fisica e in parte morale. Diversamente dalla legge penitenziaria e da gran parte della politica di sinistra, quei volontari non hanno subordinato il rapporto con me a "come la pensassi".

Considero questa un'alta lezione sui rapporti fra le persone basati sul rispetto e la solidarietà; non come esaltazione retorica di un'esperienza personale ma significativa nella sua essenza. Il meccanismo carcerario di distruzione delle persone per essere inceppato non ha avuto bisogno di aspettare che fosse pronto un movimento di tante persone, basta anche una.

Questo è di più che qualcosa a cui attaccarsi - anche se, sia ben chiaro, preferisco sempre essere fra quelli che si attaccano a qualcosa piuttosto che a niente. - E' una possibilità di uscire concretamente subito dalla rivendicazione che perpetua il bisogno di autorità, con una pratica che rafforza l'autonomia degli esseri umani, che da subito rompe la catena di infinite complicità che sta alla base del sistema di dominio e gli consente di sopravvivere.

E nemmeno faccio l'esempio del carcere solo perché qui sto. Ma perché è il cardine del sistema sociale dell'ubbidienza e della punizione.

Ho incontrato qualche tempo fa un ragazzo di vent'anni che, diversamente da tanti altri, ha avuto la fortuna di avere un padre che l'ha educato alla responsabilità di sé. E' venuto a trovarci in carcere per aiutarci in un lavoro per disabili che facciamo come volontari. Quando gli ho chiesto se il carcere gli aveva fatto impressione mi ha risposto di no, che assomigliava alla sua scuola. Mi ha allargato il cuore; anche se in modo inconsapevole, istintivamente ha colto la matrice comune:

l'origine del carcere è nell'addestramento all'obbedienza e nella punizione. Scuola e carcere hanno lo stesso "architetto", e se lui l'ha visto potrò mai io contribuire a nasconderlo invece che a combatterlo?

Spero di no, quale che sarà il mio destino. Non crediate che abbia la vocazione del martire; al contrario, sta nel mio desiderio di vita il non voler rinunciare ad uscire dal carcere intera, anima e corpo; so anche che con questo difendo un patrimonio di libertà che riguarda tutti. E' per questo che posso dire senza paura di apparire patetica che vorrei non morire in carcere, che vorrei poter stare a lungo con il mio compagno senza il controllo delle guardie, che vorrei abbracciare i miei vecchi e sostenerli nella loro vecchiaia, dopo che loro senza risparmio ci hanno sostenuti e vissuto con noi tutti questi anni senza mai chiederci una sola volta di fare compromessi con la nostra coscienza per uscire, pur vivendo nel timore di morire senza averci potuti rivedere fuori.

Ma perché questo possa esser possibile, la battaglia per l'indulto deve essere l'apertura alla strada dell'abolizione dell'ergastolo, quel fine pena mai di cui dicevo all'inizio, una vergogna che grava sulla coscienza di tutti, per portarlo a una pena temporale a livelli europei. Arrivare almeno a dire che 15 anni di carcere dovrebbero bastare qualunque cosa uno abbia commesso. Per potersi permettere di ricominciare a pensare ad un mondo dove la vendetta sociale del carcere non sia più necessaria.

Gli estremisti del tutto subito che non toglieranno un giorno di galera a nessuno, e quelli del temporeggiamento in attesa di tempi migliori, mi ricordano un vecchio compagno operaio. Vecchio perché era vecchio e compagno perché ancora lottava accanto a me ragazzina con un rispetto tale che ho osato chiedergli consiglio. Andavo a riunioni e assemblee e non mi districavo fra tante parole, mi sembrava che tutti avessero ragione e gli ho chiesto come potevo fare ad orientarmi. Mi ha risposto:

"Quando uno vuole andare a sud si incammina in quella direzione, e anche se non ci arriverà, poco o tanto avrà fatto un pezzo di strada che lo porta più vicino alla meta. Quelli che ti spiegano che per andare a sud bisogna qualche volta andare un po' a nord, o quelli che il tratto di strada non è mai abbastanza per sprecarsi, lasciali perdere: qualunque argomento usino ti fregheranno".

Come diceva una canzone di oltre vent'anni fa: "cinque anatre volavano a sud, solo una arrivava, ma quel suo volo certo vuole dire che bisognava volare".

 Un abbraccio.

Nadia

 Carcere di Opera - Milano maggio 1997

WB01343_.gif (599 bytes)