11 SETTEMBRE

PERCHE’ IN QUEL MOMENTO?

PERCHE’ IN MODO COSI’ DISPERATO?

  Quelle che seguono sono alcune considerazioni sugli attentati dell’11 settembre, emerse in una discussione tra alcune R.U.K.O.L.A. e George Caffentzis, attivista del movimento antiliberista globale..

 

Perché l’11 settembre e perché la lotta ha avuto una forma così disperata? In effetti questi attacchi sono sintomo di disperazione, non di potenza, visto che era certo che avrebbero causato una risposta militare su larga scala da parte degli Stati Uniti e degli altri vassalli dell’Impero: l’uccisione di migliaia di militanti del fondamentalismo islamico, la caduta del regime dei Taliban, anche se la guerra continua, congiunta a tremendi danni “collaterali” per le popolazioni dell’Afghanistan e, secondo Bush, di molti altri paesi. Chi può sopravvivere ad un tale colpo? Gli esecutori e i loro complici, chiunque essi siano, dovevano essere davvero disperati per mettere a repentaglio la propria organizzazione e milioni di vite umane delle loro regioni. E’ anche probabile che molte persone (forse la maggioranza), benché militanti dei circoli islamici fondamentalisti, disapprovino gli attacchi terroristici di New York, se non per ragioni morali, semplicemente per ragioni strategiche, sapendo benissimo che i risultati raggiunti potrebbero finire in fumo in conseguenza di queste azioni. Certo qualcosa di molto importante stava per accadere per spingere gli attentatori ad un progetto così disperato e altamente incerto quanto ai mezzi per attuarlo. Di cosa si trattava? La chiave sta nelle nazioni di provenienza dei dirottatori. Se ci affidiamo al Dipartimento di Giustizia americano, erano tutti cittadini di nazioni arabe. Quindici erano cittadini sauditi, due degli Emirati Arabi Uniti, uno era cittadino egiziano e uno libanese (Associated Press On-line, 23 novembre 2001). Anche se su di loro scarseggiano le informazioni, sappiamo che non facevano parte dei “diseredati della terra”. Provenivano per lo più da famiglie benestanti  o di professionisti dal centro del mondo arabo. Si trattava di intellettuali, gente che viaggiava, tutt’altro che ragazzi poveri delle madrasas del Pakistan usciti dalle scuole coraniche. Ma erano impegnati in una politica di vita o di morte con cui si identificavano completamente. Anche se non hanno lasciato dietro di sé grandi manifesti, questi dati inducono a pensare che la loro disperazione non derivava dalla politica dell’Afghanistan, ma piuttosto da quella dei loro paesi d’origine: il centro geografico dell’Islam, l’Arabia Saudita, i cui echi rimbalzano in tutto il mondo islamico. Dobbiamo partire dalla storia degli adeguamenti strutturali e delle trasformazioni dell’industria petrolifera nella penisola araba: dal 1998 (dopo il collasso dei prezzi del petrolio in seguito alla crisi finanziaria asiatica) la monarchia saudita decise, “per motivi strategici”, di globalizzare economia e società, cominciando dal settore petrolifero. L’industria petrolifera saudita era nazionalizzata dal  1975 e gli stranieri potevano partecipare solo ad operazioni di raffinazione, ma tra il 1999 e il 2000 si permise un diretto intervento delle grandi aziende multinazionali nell’industria petrolifera saudita, con cospicue riduzione delle tassazioni sui profitti e il diritto al possesso della terra (cosa gravissima per chiunque sia sensibile al carattere sacro del suolo della penisola arabica). Le multinazionali non si fecero pregare: nel 2001 il gruppo Exxon/Mobil e Dutch/Shell insieme ad altre compagnie estere (incluse le compagnie Conoco e, la oggi famosissima per la sua bancarotta fraudolenta, Enron) si sono impegnate in un progetto di sviluppo in Arabia Saudita per 25 miliardi di dollari. I giornali finanziari hanno commentato che l’accordo non sarebbe stato molto vantaggioso in sé, ma che era “parte di una manovra a lungo termine delle compagnie petrolifere, che in definitiva vogliono riconquistarsi l’accesso al greggio saudita. (LA Times, 19 maggio 2001). Così nell’estate del 2001 la monarchia saudita traeva il dado, quindi dal punto di vista sociale ed economico passava il Rubiconde della globalizzazione. Si “globalizzava” non perché il suo debito, per quanto grande, fosse ingestibile (a differenza della maggior parte dei paesi ricattati dai dettami del Fondo Monetario Internazionale) ma perché, di fronte a una crescente opposizione, il re e la sua corte realizzarono che solo con il pieno appoggio degli Usa e dell’Unione Europea potevano sperare di preservare il loro potere negli anni a venire. In altre parole, confrontati da problemi sociali rilevanti e da forze insurrezionali interne alla classe dirigente che non poteva affrontare in un conflitto aperto perché anch’esse si rifacevano all’Islam, il governo saudita  ha deciso che un traino all’economia avrebbe logorato i pericolosi avversari e avrebbe cementato l’alleanza con gli Usa e il capitale europeo. Bisogna anche sottolineare come questa strategia non può non aver conseguenze anche per gli altri paesi produttori di petrolio della regione, specialmente per i paesi del Gulf Cooperation Council- Oman, Qatar, Uae, Baharain e Kuwait.

L’introduzione della facoltà di possedere la terra e le risorse naturali da parte di aziende straniere (che certo non hanno a cuore gli interessi delle popolazioni di quei paesi), sostenuta da grandi investimenti stranieri, e l’assunzione di lavoratori espatriati dagli Usa e dall’Europa dovrebbero introdurre un cambiamento sociale notevole, sostanzialmente sfavorevole alle forze integraliste islamiche.

Se mai l’opposizione islamica interna alle classi della penisola arabica aveva sperato di indurre i governi locali a rispedire in patria i soldati americani e a convogliare gli introiti delle risorse petrolifere nel motore di un rinascente Islam, nell’estate del 2001 tali speranze si trovavano di fronte ad una crisi epocale. Senza un capovolgimento completo della situazione, l’opposizione fondamentalista avrebbe dovuto affrontare la prospettiva di una guerra civile totale o la sua estinzione. Alcuni gruppi di questa opposizione hanno deciso che solo un’azione spettacolare come i dirottamenti dell’11 settembre e il massacro di migliaia di persone a New York e Washington avrebbero potuto invertire la tendenza. Forse speravano che con lo scompiglio che gli attacchi avrebbero provocato gli Usa avrebbero compiuto una ritirata strategica dalla penisola arabica, come era avvenuto in Libano in seguito degli attentati del 1983.

Sicuramente la monarchia saudita ha reagito all’11 settembre con una sua disperazione particolare, accelerando il passo della globalizzazione del paese in alcune aree vitali. Il principe Abdullah, presidente del Saudi Arabian General Investment Authory, il 6 novembre ha detto: “Non dobbiamo permettere che il terrorismo e il conflitto ci distolgano dal nostro lavoro quotidiano e dai nostri progetti per il futuro. Diventeremo uno dei mercati più interessanti via via che la ristrutturazione  procede…vogliamo che l’intera economia sia collegata a quanto succede nel resto del mondo” ( Middle East Economic Digest”, 16 novembre 2001). Qualche giorno dopo è stato creato un ente di controllo per il settore energetico con lo specifico compito di proteggere i potenziali investitori stranieri. Costoro non sono entità astratte, perché proprio le compagnie petrolifere internazionali stanno investendo nei progetti del gas naturale prima menzionati, stanno pianificando i cospicui investimenti nelle nuove centrali elettriche. Insieme a queste notizie sono arrivati ulteriori dettagli a proposito del nuovo Ministero dell’acqua che sarà responsabile della “liberalizzazione del settore dell’acqua e dell’introduzione dell’investimento estero nella desalinizzazione”. Così una tra le principali conseguenze dell’11 settembre è stato il modo con cui la monarchia saudita si è affrettata a passare il controllo del settore energetico e idrico nelle mani di investitori internazionali, in particolare compagnie petrolifere internazionali.

Sulla base di questa analisi gli attacchi dell’11 settembre a New York e Washington DC hanno rappresentato “danni collaterali” di una lotta mortale sul destino della politica petrolifera nella sua area centrale: la Penisola Araba.

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