11 SETTEMBREPERCHE’
IN QUEL MOMENTO? PERCHE’
IN MODO COSI’ DISPERATO? Perché
l’11 settembre e perché la lotta ha avuto una forma così disperata? In effetti questi attacchi sono sintomo di disperazione, non di potenza,
visto che era certo che avrebbero causato una risposta militare su larga
scala da parte degli Stati Uniti e degli altri vassalli dell’Impero:
l’uccisione di migliaia di militanti del fondamentalismo islamico, la
caduta del regime dei Taliban, anche se la guerra continua, congiunta a
tremendi danni “collaterali” per le popolazioni dell’Afghanistan e,
secondo Bush, di molti altri paesi. Chi può sopravvivere ad un tale
colpo? Gli esecutori e i loro complici, chiunque essi siano, dovevano
essere davvero disperati per mettere a repentaglio la propria
organizzazione e milioni di vite umane delle loro regioni. E’ anche
probabile che molte persone (forse la maggioranza), benché militanti dei
circoli islamici fondamentalisti, disapprovino gli attacchi terroristici
di New York, se non per ragioni morali, semplicemente per ragioni
strategiche, sapendo benissimo che i risultati raggiunti potrebbero finire
in fumo in conseguenza di queste azioni. Certo qualcosa di molto importante
stava per accadere per spingere gli attentatori ad un progetto così
disperato e altamente incerto quanto ai mezzi per attuarlo. Di cosa si
trattava? La chiave sta nelle nazioni di
provenienza dei dirottatori. Se ci affidiamo al Dipartimento di Giustizia
americano, erano tutti cittadini di nazioni arabe. Quindici erano
cittadini sauditi, due degli Emirati Arabi Uniti, uno era cittadino
egiziano e uno libanese (Associated Press On-line, 23 novembre 2001).
Anche se su di loro scarseggiano le informazioni, sappiamo che non
facevano parte dei “diseredati della terra”. Provenivano per lo più
da famiglie benestanti o di
professionisti dal centro del mondo arabo. Si trattava di intellettuali,
gente che viaggiava, tutt’altro che ragazzi poveri delle madrasas del
Pakistan usciti dalle scuole coraniche. Ma erano impegnati in una politica
di vita o di morte con cui si identificavano completamente. Anche se non
hanno lasciato dietro di sé grandi manifesti, questi dati inducono a
pensare che la loro disperazione non derivava dalla politica
dell’Afghanistan, ma piuttosto da quella dei loro paesi d’origine: il
centro geografico dell’Islam, l’Arabia Saudita, i cui echi rimbalzano
in tutto il mondo islamico. Dobbiamo partire dalla storia degli adeguamenti
strutturali e delle trasformazioni dell’industria petrolifera nella
penisola araba: dal 1998 (dopo il collasso dei
prezzi del petrolio in seguito alla crisi finanziaria asiatica) la
monarchia saudita decise, “per motivi strategici”, di globalizzare
economia e società, cominciando dal settore petrolifero. L’industria
petrolifera saudita era nazionalizzata dal
1975 e gli stranieri potevano partecipare solo ad operazioni di
raffinazione, ma tra il 1999 e il 2000 si permise un diretto intervento
delle grandi aziende multinazionali nell’industria petrolifera saudita,
con cospicue riduzione delle tassazioni sui profitti e il diritto al
possesso della terra (cosa gravissima per chiunque sia sensibile al
carattere sacro del suolo della penisola arabica). Le multinazionali non
si fecero pregare: nel 2001 il gruppo Exxon/Mobil e Dutch/Shell insieme ad
altre compagnie estere (incluse le compagnie Conoco e, la oggi famosissima
per la sua bancarotta fraudolenta, Enron) si sono impegnate in un progetto
di sviluppo in Arabia Saudita per 25 miliardi di dollari. I giornali
finanziari hanno commentato che l’accordo non sarebbe stato molto
vantaggioso in sé, ma che era “parte di una manovra a lungo termine
delle compagnie petrolifere, che in definitiva vogliono riconquistarsi
l’accesso al greggio saudita. (LA Times, 19 maggio 2001). Così nell’estate del
2001 la monarchia saudita traeva il dado, quindi dal punto di vista
sociale ed economico passava il Rubiconde della globalizzazione. Si “globalizzava” non perché il suo debito, per quanto grande,
fosse ingestibile (a differenza della maggior parte dei paesi ricattati
dai dettami del Fondo Monetario Internazionale) ma perché, di fronte a
una crescente opposizione, il re e la sua corte realizzarono che solo con
il pieno appoggio degli Usa e dell’Unione Europea potevano sperare di
preservare il loro potere negli anni a venire. In altre parole,
confrontati da problemi sociali rilevanti e da forze insurrezionali
interne alla classe dirigente che non poteva affrontare in un conflitto
aperto perché anch’esse si rifacevano all’Islam, il governo saudita
ha deciso che un traino all’economia avrebbe logorato i
pericolosi avversari e avrebbe cementato l’alleanza con gli Usa e il
capitale europeo. Bisogna anche sottolineare come questa strategia non può
non aver conseguenze anche per gli altri paesi produttori di petrolio
della regione, specialmente per i paesi del Gulf Cooperation Council-
Oman, Qatar, Uae, Baharain e Kuwait. L’introduzione della facoltà di possedere la terra e le risorse naturali da parte di aziende straniere (che certo non hanno a cuore gli interessi delle popolazioni di quei paesi), sostenuta da grandi investimenti stranieri, e l’assunzione di lavoratori espatriati dagli Usa e dall’Europa dovrebbero introdurre un cambiamento sociale notevole, sostanzialmente sfavorevole alle forze integraliste islamiche. Se mai l’opposizione islamica
interna alle classi della penisola arabica aveva sperato di indurre i
governi locali a rispedire in patria i soldati americani e a convogliare
gli introiti delle risorse petrolifere nel motore di un rinascente Islam,
nell’estate del 2001 tali speranze si trovavano di fronte ad una crisi
epocale. Senza un capovolgimento completo della situazione,
l’opposizione fondamentalista avrebbe dovuto affrontare la prospettiva
di una guerra civile totale o la sua estinzione. Alcuni gruppi di questa
opposizione hanno deciso che solo un’azione spettacolare come i
dirottamenti dell’11 settembre e il massacro di migliaia di persone a
New York e Washington avrebbero potuto invertire la tendenza. Forse speravano che con lo
scompiglio che gli attacchi avrebbero provocato gli Usa avrebbero compiuto
una ritirata strategica dalla penisola arabica, come era avvenuto in
Libano in seguito degli attentati del 1983. Sicuramente
la monarchia saudita ha reagito all’11 settembre con una sua
disperazione particolare, accelerando il passo della globalizzazione del
paese in alcune aree vitali. Il principe Abdullah, presidente del Saudi
Arabian General Investment Authory, il 6 novembre ha detto: “Non
dobbiamo permettere che il terrorismo e il conflitto ci distolgano dal
nostro lavoro quotidiano e dai nostri progetti per il futuro. Diventeremo
uno dei mercati più interessanti via via che la ristrutturazione
procede…vogliamo che l’intera economia sia collegata a quanto
succede nel resto del mondo” ( Middle East Economic Digest”, 16
novembre 2001). Qualche giorno dopo è stato creato un ente di controllo
per il settore energetico con lo specifico compito di proteggere i
potenziali investitori stranieri. Costoro non sono entità astratte, perché
proprio le compagnie petrolifere internazionali stanno investendo nei
progetti del gas naturale prima menzionati, stanno pianificando i cospicui
investimenti nelle nuove centrali elettriche. Insieme a queste notizie
sono arrivati ulteriori dettagli a proposito del nuovo Ministero
dell’acqua che sarà responsabile della “liberalizzazione del settore
dell’acqua e dell’introduzione dell’investimento estero nella
desalinizzazione”. Così una tra le principali conseguenze dell’11
settembre è stato il modo con cui la monarchia saudita si è affrettata a
passare il controllo del settore energetico e idrico nelle mani di
investitori internazionali, in particolare compagnie petrolifere
internazionali. Sulla
base di questa analisi gli attacchi dell’11 settembre a New York e
Washington DC hanno rappresentato “danni collaterali” di una lotta
mortale sul destino della politica petrolifera nella sua area centrale: la
Penisola Araba. |
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