...mentre in Iraq si giocava alla guerra... 

17 marzo 2003: scoppia la guerra in Iraq, gli Stati Uniti attaccano, gli iracheni soffrono, i media del mondo danno l’avvio al più grande spettacolo mai proposto prima sui nostri schermi. E cosi per giorni, mentre i missili bombardano Baghdad, tutto il mondo è bombardato dalle immagini della nuova ed infinita guerra.

 

17 marzo 2003: inizia il massacro in Palestina, nell’indifferenza di un mondo che da quel giorno non ha più occhi per vedere i blindati israeliani continuare nella loro avanzata; non ha più orecchie per sentire le grida di quelle madri che piangono i loro figli colpevoli di essere nati sulla “terra senza popolo per il popolo senza terra”.

 

17 marzo 2003: striscia di Gaza: nella notte vengono uccisi, durante una rappresaglia, undici palestinesi, molti di loro non combattenti e vengono fatti quattro prigionieri. Scorrono fiumi di sangue che vanno ad ingrandire l’oceano a cui Israele vorrebbe ridurre la Palestina. Oceano di morte, purtroppo.

Già dalla metà di febbraio, Israele, approfittando dei riflettori accesi esclusivamente sull’Iraq, ha cominciato a intensificare notevolmente i raid nei territori. In un mese, da metà febbraio a metà marzo, nei territori occupati sono stati uccisi 109 palestinesi (la maggior parte dei quali a Gaza) ; un bilancio della violenza equivalente ai mesi ottobre-novembre 2002 –i due mesi più sanguinosi della nuova intifada, dopo quelli marzo- aprile 2002. In quei mesi furono

 

attaccate le grandi città autonome con raid improvvisi e rapidi, ora invece sembra che l’esercito stia adottando una nuova strategia con operazioni più lunghe per smantellare le infrastrutture di Hamas. Ma le vittime sono soprattutto civili, bambini che giocano a pallone, persone che sono in giro per cercare qualcosa da mangiare, essendo gli attacchi sferrati alla cieca.

 

In Palestina, purtroppo, “sparare sulla croce rossa” non è una battuta di spirito ma una realtà, come riferisce Etienne Antheunissen, responsabile della Croce Rossa nella striscia di Gaza.

È evidente che i raid israeliani, soprattutto in questo periodo in cui ha una libertà d’azione incondizionata dovuta ad un mirato spostamento dell’ attenzione sull’Iraq,ottengono esattamente l’effetto contrario dell’obiettivo che dovrebbero perseguire, alimentando il sentimento di vendetta e la mobilitazione della popolazione palestinese a favore di Hamas. Mettendo peò in ginocchio la società civile, violando ripetutamente e costantemente la IV Convenzione di Ginevra, compiendo attacchi deliberati contro i civili, impiegando armi non convenzionali, attaccando le missioni mediche.

Alla fine di febbraio 2003, si contano più di 3000 morti, di cui i tre quarti sono palestinesi: un bilancio di morte che vede raddoppiate le vittime della prima intifada.

 “Colpisci e terrorizza” del resto è un metodo d’azione caro a Sharon e messo in atto già nell’82 con i massacri di Sabra e Shatila e preso in prestito dagli amici  statunitensi per la campagna contro l’Iraq, riproposto solo un anno fa, aprile 2002, con l’invasione e il massacro della popolazione del campo profughi di Jenin -600 morti e un numero imprecisato di feriti-.

Anche su questa tragedia calcolata e voluta sono calate le tenebre. Nessuna commissione d’inchiesta è stata mai autorizzata a far luce. L’obiettivo, in quel caso, fu di eliminare i centri culturali di Jenin e i centri di comunicazione e di scambio tra palestinesi ed ebrei.

Ma i progetti di Sharon non mirano a colpire e terrorizzare solo la popolazione palestinese per assicurarsi il possesso della loro terra, coinvolgono e rischiano di compromettere gli equilibri geopolitici dell’intera area.

Israele, sta lanciando pesanti accuse alla Siria -sia in merito alle armi che potrebbe possedere, sia per l’appoggio che avrebbe fornito all’Iraq durante la guerra-, poiché se quest ’ultima s’indebolisse, Israele ne trarrebbe subito notevoli vantaggi materiali, ad esempio potrebbe essere costretta a rinunciare alle alture del Golan occupate da Israele nel 1967, a ritirare il suo sostegno ai gruppi di guerriglia anti-israeliani, in particolare agli Hezbollah libanesi.

E per questo cheTel Aviv che sta premendo su Washington affinché alzi i toni con la Siria e poter, ancora una volta, trarre notevoli vantaggi da situazioni in cui apparentemente non è coinvolta, facendo la parte del terzo che dopo aver visto i due litiganti scannarsi arriva a risolvere il conflitto, godendo più dei due dell’esito della contesa.

Sharon sta preparando anche la scenografia per riproporci ancora una volta lo stesso copione: proporre dei negoziati inaccettabili, presentandoli invece come la svolta decisiva, così da porre Arafat in un angolino, in fondo alla scena e, farlo apparire come il responsabile del fallimento degli accordi. Ma stavolta c’è un nuovo elemento: il presidente dell’Olp, dall’angolino in cui sarà relegato dovrebbe uscire di scena e, possibilmente, senza fare troppo rumore.

Israele ha trovato in Abu Mazen, infatti, un ottima pedina da utilizzare contro Arafat in accordo con gli Stati Uniti, proponendolo come unico interlocutore possibile per i negoziati, per cui sarebbero anche disposti a fare “dolorose concessioni”. Ma leggendo tra le righe delle ultime dichiarazioni di Sharon, non vi si ritrova altro che una riproposizione del discorso di Bush del 24 giugno 2002, in cui ipotizzava la nascita di uno  Stato palestinese a condizione del raggiungimento della massima stabilità per Israele e della rimozione di Arafat, (altro che dolorose concessioni).

Ancora una volta, poi, i più crudeli fautori di morte ammantano le proprie spietate iniziative di distruzione, di virtù salvifiche per l’intera umanità: e anche in questo caso si parla di “lotta al terrorismo” per definire queste ultime azioni di rappresaglia portate a termine da Israele nel silenzio dei media,invece che d’occupazione di terre altrui e d’oppressione d’un popolo, che null’altro sta facendo oltre a resistere  e lottare per la propria libertà.

 

Rukola 91

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