IL
PATTO PER FORZA ITALIA E
IL
LIBRO NERO DELL’IPERLIBERISMO
Ragionare
sull’accordo del 5 luglio (Patto per l’Italia) non è affatto semplice
tali e tante sono le questioni che vi sono implicate.
Al
di là di ogni tentativo di sottovalutazione, l’accordo risulta
di estrema importanza e segna, a nostro giudizio, un decisivo passaggio di
fase.
Esso rappresenta in primo
luogo la chiusura e il definitivo superamento della fase politica aperta
dall’accordo del 1993 e imperniata sulla cosiddetta concertazione.
I
contenuti e ancor più la forma con la quale si è giunti all’accordo
manifestano la forza di cui dispone questo Governo, la capacità di
imporre, sostanzialmente senza alcun significativo compromesso ma
addirittura attraverso concessioni soltanto apparenti, il suo programma.
In
altre parole, alla luce dei nuovi rapporti di forza tra le parti sociali e
le forze politiche, la concertazione non soltanto non risulta più
funzionale alla nuove esigenze ma
neppure è necessaria.
Per
chiarire questo punto bisogna considerare che l’accordo del 1993 fu reso
necessario non soltanto dal pericolo di un eventuale dissesto della
finanza pubblica ma soprattutto dalla estesa delegittimazione che con
tangentopoli si era abbattuta sul sistema dei partiti. Il governo
dell’epoca non godeva di alcuna legittimazione elettorale, i partiti
erano in dissolvimento e le uniche risorse di governo risultavano la banca
d’Italia e i presunti tecnici
La
Confindustria, dal canto suo, risultava in aperta crisi di rappresentanza:
le grandi famiglie e la grande industria che ne aveva a lungo costituito
il cuore dettandone le politiche, apparivano in evidente declino.
In
queste condizioni il sindacato confederale, anch’esso in una
inarrestabile crisi di rappresentatività (in vent’anni il numero degli
iscritti è in Italia caduto da circa la metà delle persone occupate a
meno di un terzo) in cambio di moderazione salariale e della sostanziale
rinuncia a contrattare il salario monetario otteneva il riconoscimento di
soggetto di primo piano nella determinazione delle politiche sociali.
La
cosiddetta “concertazione” veniva in sostanza a fondarsi
sull’accordo tra soggetti tutti egualmente deboli che traevano dal
reciproco riconoscimento sostegno alle politiche di “risanamento
finanziario e competitività del sistema produttivo” che per i
lavoratori significavano il progressivo slittamento nella distribuzione
del valore aggiunto a vantaggio dei profitti delle imprese e un ulteriore
indebolimento della loro componente centrale e più garantita.
Se
l’accordo del ’93 ha comportato l’istituzionalizzazione del
sindacato, il Patto per l’Italia, al contrario, sancisce l’esclusione
dalle relazioni sindacali dell’organizzazione più rappresentativa (Cgil).
La
fase che si apre, nonostante arrivi dopo il 23 marzo e lo sciopero
generale, evidenzia la debolezza del sindacato e sarà segnata, salvo
imprevedibili inversioni di tendenza, da un suo ulteriore indebolimento.
In
questo senso la destra, con questo accordo, registra un importante e
significativo successo, raggiungendo il primo vero obiettivo del proprio
programma elettorale.
Una ulteriore
deregolamentazione del mercato del lavoro e soprattutto la messa in
discussione della basi stesse della presenza e dell’agibilità del
sindacato nei luoghi di lavoro, obiettivo vero della eliminazione dell’art.18, erano
infatti da tempo tra le richieste prioritarie di larga parte di quel vasto
arcipelago di piccole imprese e ceti medi produttivi che rappresentano
parte rilevante e crescente dell’apparato produttivo del Paese oltre che
uno dei fondamentali sostegni di questo governo.
L’obbligo
di reintegro nel posto di lavoro a seguito di un licenziamento
ingiustificato, ha rappresentato fino ad oggi una sorta di precondizione,
di principio cardine a tutela dell’esercizio di una molteplicità di
altri diritti, non ultimo quello di associazione e iniziativa sindacale.
Soltanto chi sa che al datore di lavoro è impedito di ricorrere appena lo
ritiene ad un licenziamento di “rappresaglia” avrà la forza di
richiedere, ad esempio, il pagamento delle ore straordinarie non pagate,
una qualifica superiore spettante per mansioni effettivamente svolte o la
stessa regolarizzazione di un rapporto di lavoro in nero.
L’eliminazione
dell’art. 18, nella forma sperimentale o con tutti i trucchi che è
stato possibile escogitare, renderà, nella realtà dei luoghi di lavoro,
impraticabili e inesigibili gran parte dei diritti attribuiti ai
lavoratori da una molteplicità di leggi.
E’ però bene chiarire che sull’ obiettivo di un ridimensionamento del
ruolo del sindacato esiste una convergenza di opinioni che va ben al di là
della destra al governo.
A
questo proposito vale la pena di compiere una breve digressione, per
ricordare che una opzione sempre più convinta in tale direzione si era
andata chiaramente manifestando nel centrosinistra a partire dal 1998 con
il primo Governo D’Alema (ricordate
lo scontro tra D’Alema e Cofferati al Congresso di Torino?). A
quell’epoca la concertazione e la politica dei redditi, raggiunto
l’obiettivo dell’aggancio alla moneta unica, stavano già mostrando la
corda e soltanto l’impossibilità del centrosinistra di procedere in
aperto contrasto con una parte politicamente consistente e organizzata
della propria base elettorale ha impedito la manomissione dello Statuto
dei lavoratori.
In quest’ottica, i commenti espressi da noti esponenti della Quercia e
della Margherita all’indomani dell’accordo e le iniziative assunte nei
giorni seguenti non sono soltanto l’espressione del politicismo che li
affligge bensì la manifestazione di una difficoltà vera nel distinguere
tra i contenuti, in larga misura condivisi, e le forme, l’accordo
separato, rispetto alle quali
si dissente. D’altro canto e con questo chiudiamo l’inciso, il famoso
Libro bianco, testo che ha ispirato l’accordo, è stato redatto da
tecnici ed intellettuali non certo di destra ( Biagi era di area DS,
Dell’Arringa è vicino ai popolari, Sestito è stato consulente di D’Alema,
Forlani è un ex Cgil, Sacconi proviene dal vecchio PSI, Treu, che pur non
partecipando alla sua redazione ne è senzz’altro uno degli ispiratori,
appartiene alla Margherita).
L’eliminazione
dell’art. 18 è il presupposto per il ridimensionamento del sindacato
nei luoghi di lavoro e la sua trasformazione da soggetto contrattuale in
struttura para-pubblica di erogazione di servizi per il mercato del
lavoro.
Uno
degli obiettivi più lucidamente individuati nel Libro Bianco e sui quali
si è registrata una ampia
convergenza, tra la destra, Cisl,
Uil e la Margherita, è il
superamento del modello di relazioni tra le parti sociali fondato sul
contratto collettivo nazionale.
A
giudizio di questo ampio campo di forze è arrivato il tempo di procedere
allo smantellamento di quell’insieme di diritti e di garanzie, definite
attraverso le leggi e confermate o ampliate nei contratti collettivi, a
tutela dei lavoratori.
Il
carattere mistificatorio di tali assunzioni deriva dal porre su di un
piano di assoluta parità datore di lavoro e lavoratore, assumendo che si
tratti di due soggetti i quali, liberi da ogni condizionamento e mossi dal
proprio esclusivo interesse alla massimizzazione dei personali benefici,
stipulano un contratto di lavoro alla stessa stregua di un normale
contratto di compra-vendita.
Dietro
quest’ apparente modernità di linguaggio si cela nulla più che il
ritorno al Codice del Commercio dei primi del ‘900. Un intero secolo di
azione sindacale e di sforzi volti a sottrarre i lavoratori, visti quali
contraenti deboli nel rapporto contrattuale,
all’arbitrio dei datori di lavoro, attraverso l’introduzione di
norme di carattere pubblico, quindi non disponibili alle parti, viene
gettato alle ortiche.
Secondo
questa impostazione ai contratti collettivi e alle norme del diritto del
lavoro, giudicate poco moderne, dovrebbero far posto “le norme
leggere”, quelle che mirano a orientare il comportamento dei soggetti
senza in realtà fissare regole prescrittive, e servizi di
accompagnamento, rivolti non alla tutela del posto di lavoro, come
l’art. 18, bensì a garantire la occupabilità del lavoratore.
Entrambe queste presunte innovazioni sono già da tempo oggetto di
sperimentazione in ambito nazionale e comunitario e non hanno prodotto
altro che un ulteriore ampliamento delle fasce di lavoro precario.
Tuttavia, l’accordo del 5 luglio rappresenta
un accelerazione decisa in questa direzione in particolare perché pone le
premesse per una radicale trasformazione o, per chi ha abbastanza memoria,
per un ritorno al passato del sindacato.
Il ruolo assegnato alla cosiddetta bilateralità, in sostanza ad enti
costituiti tra sindacati e datori di lavoro,
nella riforma delle forme di protezione
dei lavoratori contro il rischio di disoccupazione, nei servizi di
formazione e di collocamento, oltre ad avere un sinistro richiamo
corporativo, rappresenta uno snaturamento della funzione del sindacato in
quanto soggetto contrattuale e un suo deciso ritorno al passato (chi
ricorda Marlon Brando
in “Fronte del porto” ?)
In
sintesi gli obiettivi dichiarati e perseguiti con l’accordo del 5 luglio
sono:
u
il ridimensionamento e, in prospettiva, il superamento del contratto
collettivo a vantaggio del contratto di lavoro stabilito tra le parti e
regolato esclusivamente dal diritto delle obbligazioni;
u
la trasformazione del ruolo del sindacato da soggetto organizzato che
contratta condizioni di lavoro e tutela i lavoratori di fronte
l’arbitrio padronale in agenzia di servizi che offre formazione, trova
posti di lavoro, eroga sussidi e indennità (cioè i diritti trasformati
in elemosine e via libera a ulteriori ricatti, clientele, ecc);
In
conclusione e senza enfasi alcuna quest’accordo e il programma contenuto
nel “Libro Bianco” rappresentano un ulteriore tappa nella direzione
dello smantellamento di quell’insieme di regole e norme, in gran parte
contenute nello Statuto dei lavoratori, che, attribuendo al lavoratore in
quanto persona definiti e precisi “diritti fondamentali”, elevati al
rango di diritti costituzionali, erano rivolti a sottrarre il lavoro al
mercato.
Per
quanto detto i tentennamenti della presunta opposizione non sono che una
ulteriore ed estrema dimostrazione della subalternità alla imperante
ideologia liberista. Mentre la reazione della Cgil non è affatto
sproporzionata alla posta in gioco e anzi, non mettendo in discussione la
sciagurata politica della concertazione a sostegno dei processi di
flessibilizzazione del mercato del lavoro, appare ancora di scarse vedute.
Le aperture ( dopo vari e miopi dinieghi) di Cofferati ai “no-global”
speriamo possano costituire un passo verso un’alleanza con l’unico
movimento, pur variegato, in grado di esprimere un’opposizione
sostanziale e radicale al neoliberismo e alla guerra.
Ruko-leo
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