projekt:
valerio bindi
francesca iovino
sciattoproduzie
La
Distruzione
9.45: Lidovy
dum – Praga. Quartiere operaio, edificio in cemento armato, sala molto grande
e cortile retrostante. Sembra un posto abbandonato da poco, malgrado il
numero di persone che ora si muove all’interno. Sicuramente questo luogo
non ha mai visto un’animazione e un’agitazione così serrata. E’ una
piccola e breve trasformazione. E’ la visibilità, lo svelamento di
una zona temporaneamente autonoma. Una piccola indicazione per una
mutazione successiva, un passaggio momentaneo per mostrare e dimostrare
un cambiamento possibile e potenziale.
11.55: Mala Strana, praticamente pieno centro storico. Questo edificio ha una scala imponente che conduce in locali altrettanto sontuosi, come in un labirinto di stanze che s’incastrano una dentro l’altra. Da fuori, sulla strada, puntelli di legno per sostenerlo. O meglio un intrico di pali e controventi che si alternano compatti formando una sorta di tettoia, anzi una vera galleria che ripara e protegge i passanti. E’ un intero grande palazzo abbandonato da tempo, eppure dentro niente sostegni, gli spazi sono abbastanza grandi per le nuove attività e per la quantità notevole di gente che temporaneamente transita e si trattiene. Ma durerà poco troppo poco, d’altronde siamo in pieno centro urbano.
15.20: zoo – Berlino Ovest. Il muro è stato appena abbattuto, la città si è ingrandita: una metropoli fuori misura composta da due città, da due ricchezze, da due sistemi di sviluppo sul territorio. I vuoti sono sparsi e in gran numero: aree in costruzione, edifici abbattuti, crollati abbandonati. Occupazione – riuso – riorganizzazione degli spazi, mentre berlino ovest lentamente si trasferisce a berlino est. Per la ricostruzione e ricostituzione di una metropoli-simbolo, o meglio di una megalopoli, il cambiamento suddivide ancora la città in due. Nella zona rappresentativa, di facciata, zero vuoti zero non-luoghi: questa è la città ricca. Versante est, ancora trasformazioni spontanee, occupazioni, mutazioni temporanee, vita reale e programmazioni limitate, circoscritte alle attrattive economiche e di mercato urbano.
8.52: Spinaceto – Roma. La nostra Spinacity fatta di cemento. Il nostro manufatto fatto di scale solai rampe pilastri. Non ci sono infissi né divisioni di alcun genere, perché è tutto da inventare da trasformare. Un gigantesco vuoto costruito, disponibile per ogni suddivisione, senza limiti di tempo o di spazio. C’è chi occupa aree circoscritte e segue i confini modulari, c’è chi la pensa in grande e modifica, trasforma, ri-modella. E suggerisce nuove partizioni, ma soprattutto differenti sistemi e modi di concepire e conquistare lo spazio.
17.38: Casilino 700 – campo nomade. Una collina di fango dentro la città. Baracche miste a ripari che è difficile catalogare e che sono difficili da raggiungere. Perché si affonda. Come una piccola città fatta di mancanze e persone. L’emblema dell’apartheid urbana, perché non si sa come, ma questo luogo resiste ancora all’interno della metropoli. Per ora è l’isola che non c’è, il vuoto che non si vuole considerare e trasformare come pieno, un buco nella maglia costruita. Ma questo tipo di gap ha già soluzioni rapide: l’allontanamento oltre il raccordo è il rimedio più immediato. E il paesaggio urbano torna integro.
13.15:
Bosnia – villaggi sulle colline direzione Sarajevo.
Agglomerati sparsi nella campagna e tra le colline. Praticamente fantasmi
di piccoli paesi, con le case ridotte ormai a scheletri di soli muri, tutti
senza tetti, infissi, porte e finestre. Un paesaggio svuotato, abbandonato,
sottratto, che circonda e si avvicina alla grande città. E’ come
fosse una grande ‘opera di desertificazione’, uno luogo abitato che viene
cancellato e per il quale è complessa la ricostruzione. O la trasformazione,
il re-impossessamento. Un’altra tipologia di costruzione dei vuoti, che
anche se violenta, ad osservarla e attraversarla, sembra pianificata, organizzata.
Voluta non soltanto da un feroce attacco militare.
21.54: Oslobodjenie – Sarajevo. Quello che rimane: i pilastri con le loro larghe piastre attorno alla struttura centrale che sosteneva e portava tutto l’edificio, contenendo i sistemi di risalita e i cavedi per gli impianti tecnici. Grandi frammenti di cemento incastrati intorno a tondini di ferro che si diramano sospesi dai pilastri. Recinti superstiti, perforati da buchi in successione. Intorno ruderi di cemento e facciate che sembrano di cartone perché dietro non nascondono nulla. Un isolato deserto che permane come memoria e come paura. Uno spazio urbano che ha perso connotazione, che attende una nuova identità. In una città che comincia la sua ricostruzione, la sua ripianificazione. Che deve ritrovare una propria rappresentazione, deve inseguire successive trasformazioni, attraverso piani frammentati di sviluppo. Quale la sua futura immagine?
Una mappa singolare, una deriva senza limiti, senza spazio né tempo. Città diverse che si susseguono fuori da percorsi ordinati. Una meta-metropoli che non ha confini né identità precisa in cui l’unica appartenenza o legame sono i vuoti, le rovine, le distruzioni. Perché sono comunque luoghi di confine. Ovvero luoghi dell’oltre molto più che non-luoghi, spazi del poco conosciuto, perché poco o mai frequentato, del lontano, perché fuori dai percorsi abituali, del distante, in termini di spazio di tempo di ghettizzazione culturale. Al di là dei margini fisici, dei territori e delle ripartizioni reali: le aree di risulta, le zone prive di identità progettuale, definiscono e caratterizzano i complessi metropolitani.
Cosa sono dunque, i non-luoghi, gli spazi vuoti di separazione tra organismi di quartiere, le aree dimenticate o residue, le zone che attraggono capitali per la loro trasformazione o che al contrario servono quali bacini o sacche (e non più luoghi)di distacco? Quali interessi suscitano, o meglio cosa rende di interesse culturale (sociologico, artistico, architettonico…) ed economico un’area rifiutata, non inclusa nella pianificazione territoriale? Quali spinte romantiche sottendono le ricerche e le attenzioni rivolte a questo tipo di zone urbane, che oltre qualsiasi progettazione o intenzionalità intellettuale, continuano a vivere ed essere abitate da chi vive e abita la città? Cosa distingue quindi questi luoghi-non-luoghi da quelli che lo divengono forzatamente come a Sarajevo, come a Pristina, come in una guerra, da quelli che lo sono perché a lungo abbandonati per quanto in mezzo alla città, come facilmente accade nei complessi metropolitani…
La
distruzione, la mancanza, il vuoto, la perdita, sono solo alcuni elementi
comuni che condizionano la fruizione di queste aree, così come attraggono
interessi intellettuali di ricerca, economici di sfruttamento o romantici
di interpretazione e di scoperta. Eppure esistono continuano ad esistere
e permarranno all’insaputa e oltre qualsiasi definizione o catalogazione
successiva. Questi luoghi di mutazione interagiscono e compongono
il fluire delle attività urbane, sono spazi di frontiera zone in
continuo divenire, che spesso sfuggono al controllo capillare. Ma che per
la loro stessa esistenza sono ormai componenti fondative e irrinunciabili
dell’abitare metropolitano. Sono i laboratori di stimolo per le successive
alterazioni urbane.
Si può quindi parlare di pianificazione, recupero o riprogettazione
di queste aree? Si può fissare un intervento progettuale per parti,
una serie di operazioni di microchirugia? E in che modo riuscire ad inserirsi
nel processo in costante trasformazione? La città muta sotto l’azione
di chi la abita, continua la sua evoluzione o la sua modificazione perché
chi la attraversa costruisce la sua reale composizione, oltre ogni assetto
programmatico. "Lo spazio è fondamentale in ogni forma di vita collettiva.
Lo spazio è fondamentale in ogni esercizio di potere." M. Foucault:
‘Space Knowledge and Power’, 1984.
Mentre l’annientamento, la tabula rasa, il vuoto prestabilito o l’abbandono pianificato sono i mezzi e talvolta gli espedienti per una progettazione che controlla, nel modo più profondo e sistematico, lo sviluppo e lo svolgersi del fluire urbano. Probabilmente non è necessaria una nuova forma o teoria progettuale per modificare o invertire questa tendenza. E’ l’uso degli stessi sistemi di distruzione e separazione, è l’ingrossamento o l’ampliamento di questa dispersione e di queste disgregazioni che induce differenti comportamenti per la trasformazione. Un solo esempio quale simbolo e paradosso di questa volontà edificatoria di controllo su una città che deve aver bisogno di circoscrivere e definire profondamente i suoi spazi, di stabilire aree che abbiano attività fisse e temporanee, di localizzare e limitare zone che abbiano vita e attività stanziali, provvisorie o di movimento. E’ possibile dunque, predeterminare e progettare la mobilità o il nomadismo, stabilendo un sistema di integrazione e aggregazione con la città e i suoi abitanti, attraverso una pianificazione extraurbana? E se si forzassero i cordoni dell’apartheid ‘costruendo un grande vuoto’, progettando un gap? Nel pieno della città?
The Destruction
9.45: Lidovy dum - Praha. Working neighbourhood, a building
in reinforced concrete, a very big hall and a court at the back. It looks
like a place abandoned short time ago, in spite of the number of people
that pass inside it, now. Certainly, this site had never seen such serried
liveliness and agitation. It's a little and short transformation. It's the
visibility, the revealing of a temporary autonomous zone. A small indication
for a following mutation, a temporary passing for showing and demonstrating
a possible and a potential change.
11.55: Mala Strana, practically in the middle of the historic centre. This edifice has a huge staircase which leads to premises with the same luxury, as in a labyrinth of rooms that fit together, one inside the other. From outside, on the road, wood supports to bear up it. Or better, a maze of piles and controventi that are close alternated by forming a sort of shed. Indeed a real gangway which shelters and protects the passerby. It is a whole big building forsaken long time ago, but inside there isn't any kind of supports, the spaces are big enough for the recent activities and for the large amount of people which pass and stay temporarily. It will last for a short a very short time, on the other hand we are inside the middle of the city centre.
15.20: zoo - West Berlin. The wall has just been pull down, the city has grown larger: an excessive metropolis composed by two towns, by two riches, by two development systems on the territory. The voids are spread and in a big number: areas under building, edifices destroyed, fallen down, abandoned. Occupation - reuse - reorganization of the spaces, while west Berlin moves to east Berlin, slowly. The change still subdivides the city in two parts, for the reconstruction and the reconstitution of a symbol-metropolis, or better of a megalopoli. In the representative zone, di facciata, zero voids zero no-places: this is the rich city. East side, still spontaneous transformations, occupations, temporary mutations, real life and restricted programming, circumscribed to the economic attractions and for urban market.
8.52: Spinaceto - Rome. The our Spinacity made by cement. The our manufactured made by stairs floors flights pillars. There aren't any frames nor any sorts of divisions, for the reason that everything is to be invented, to be transformed. A huge built void, available for any subdivision, without restrictions of time or space. There is who occupies limited areas and follows the modular borders. There is who thinks on a large scale and modifies, changes, re-models. And advises new partitions, but most of all different systems and ways to conceive and acquire the space.
17.38: Casilino 700 - nomad camp. A mud hill inside the city. Huts mixed with shelters impossible to be listed and to be reached. Because one goes down. As in a small town made by lacks and people. The symbol of the urban apartheid, because this place still withstands inside the metropolis, although nobody knows how. For the present, it is the island that there isn't, the void that nobody wants to consider and transform as full, a hole in the constructed net. But this type of gap has already fast solutions: the leaving over the ring highway is the remedy more direct. And the urban landscape comes back whole.
13.15: Bosnia - villages on the hills, Sarajevo direction. Conurbations spread in the country and among the hills. Practically ghosts of small countries, with the houses turned by now into a framework of walls only, each one without roof, frames, doors and windows. A landscape emptied, deserted, stolen, a landscape that is surrounded and gets near the big town. It's like a great 'deserting work': an inhabited site to be wiped out and for which the reconstruction is complicated. As the transformation, the re-getting hold. By watching and by crossing it, there is another typology for building the voids, which looks like planned, organized, even if violent. Willed not only by a cruel military attack.
21.54: Oslobodjenie - Sarajevo. What remains: the pillars with their large slabs around the central structure that supported and bore the entire building, by containing the mechanical ascent and the wells for the technical systems. Big fragments of cement embeded around iron rods which are branched by being hung from the pillars. Surviving fences, pierced by holes one after the other. All around cement ruins and facades that look like a millboard because behind anything is hidden. A deserted block that resists as memory and fear. An urban space that lost its connotation, that waits for a new identity. In a city that begins its reconstruction, its re-planning. That has to recover its own representation, that has to chase the following transformations, through fragmented plans of development. What its future image?
A peculiar map, a drift without edges, without space nor time. Different towns which follow each other outside arranged paths. A meta-metropolis that hasn't borderlines nor an exact identity in which the only belonging or bind are the voids, the ruins, the destructions. Because, however, they are border places. Or sites of the further more than no-places, spaces not very well-known, because not very or ever frequented, spots of the far, because outside the usual paths, of the distant, in terms of space, time, cultural ghetto. Besides the physical edges, the territories and the real divisions: the resulting areas, the zones lacking in project identity, define and feature the metropolitan complexes.
What are then, the no-places, the empty spaces of separation among neighbourhood's organisms, the forgotten or residual areas, the zones that attract capitals for their transformation or that on the contrary, serve as field or inlet (and no more places) of division? Which kind of interests are provoked, or better what make cultural and economical (sociological, artistical, architectural) a refused area, not included in the territorial planning? Which kind of romantic boosts subtend the researches and the attentions addressed to such type of urban zones, that besides any project or intellectual intentionality, keep on living and being dwelled by who live and dwell the city? Then what distinguishes such places-no-places from those that forcely became so as at Sarajevo, at Pristina, in a war; from those that, as easily occurs in the metropolitan complexes, be in a such way, although they are among the city, for the reason that are too long abandoned…
The destruction, the lack, the void, the loss, are only some common elements which condition the fruition of these areas, so as attract intellectual interests of researching, economical ones of exploitation or romantical of interpretation and descovering. But they exist, keep on existing and will persist without the knowledge and beyond any definition or following listing. These places of mutation interact and constitute the flowing of the urban activities, they are borderline spaces, zones under continous turning, that often slip from the capillary control. But by then, because of their own existence, they are fondative and indispensable components of the metropolitan dwelling. They are still the laboratories of stimulus for the following urban alteration. So, is it possible to talk about planning, recovering or re-projecting of these areas? Is it possible to fix a planning intervention divided in many parts, like a series of microsurgical operations? And in which way succeed in getting into the process on firm transformation? The city changes under the action of who lives it, who carries on its evolution or its modification because who crosses it, constructs its actual setting, beyond any programmatic order. "The space is fundamental in any form of communal life; space is fundamental in any exercise of power" M. Foucault: 'Space Knowledge and Power', 1984.
While the annihilation, the tabula rasa, the preestablished void or the planned abandon are the means and sometimes the devices for a projection that checks the evolution and the developing of the urban flowing. Probably it's not necessary a new planning form or theory to modify or inverse this tendency. It is the use of the same systems of destruction or separation, it is the swelling or the enlargement of this scattering and of these disintegrations that induces different behaviours towards the transformation. One example only as symbol and paradox of this erecting will of control on a city that must need to circumscribe and define its spaces deeply, to set areas with firm and temporary activities, to localize and limit zones with permanent, provisional or under movement activities. Therefore is it possible to predetermine and project the mobilityor the nomadism, fixing a system of integration and aggregation with the city and its inhabitants, through an extra-urban planning? And se si forzassero the apartheid cordons by 'building a big void', by planning a gap? At the height of the town?