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LA CANAPA DI DENTRO

PIOMELLI DANIELE

Chi prenderàdell’hashish dopo la mescalina lascia un’auto da corsa per un poney.

Sostituiamo pure mescalina con morfina, o cocaina, o acido lisergico, o harmalina o ibogaina: la metafora di Henri Michaux resta perfetta. Auto da corsa tutte: diverse per velocitàcilindrata o carrozzeria, ma pur sempre auto da corsa, rispetto alla natura gentile del poney/Cannabis. Una gentilezza che prende forme diverse. Gentilezza di effetti, prima di tutto. Un’euforia leggera - che niente ha a che vedere con l' high da cocaina o il trip da acido lisergico si accompagna ad una piacevole smemoratezza, alla sensazione che il tempo scorra diverso (si sospetta piùlentamente, ma come si fa ad esserne sicuri?), ad un appetito che èanche piùnetto quasi tattile godere del gusto. Un’iperestesia senza eccessi. E poi, lentamente e naturalmente, una sonnolenza che diventa sonno profondo, riposo vero kif, uno dei nomi Arabi della Cannabis, significa semplicemente “riposo”- non il dormiveglia carico di sogni nervosi e il risveglio sbornioso della cocaina e dell’alcool. Perché, con la cocaina e l’alcool, la Cannabis non ha niente, ma veramente niente, in comune.

La Cannabis, infatti, ègentile: anni di ricerca tossicologica e decine di studi su volontari sani non sono stati in grado di dimostrare alcun effetto collaterale dell’hashish o della marijuana che possa paragonarsi, non dico a quelli della cocaina e dell’alcool (che sarebbe facile), ma perfino a quelli del tabacco. E neppure uno straccio di prova farmacologica esiste che la Cannabis provochi dipendenza fisica. La dipendenza psicologica dìcui parla talora la letteratura medica resta un concetto vago, dai contorni mal distinti: in mancanza di una sindrome vera propria e di sintomi biologici oggettivi, come avviene invece per la cocaina, la sua unica definizione possibile èun truismo: l’hashish e la marijuana si fumano e si tornano a fumare perchépiacciono. Bella scoperta. Ma anche il crack (che ècocaina base, non salificata) si fuma da principio perchépiace. Ma se poi si torna a fumare èperchénon se ne puòpiùfare a meno, perchésuperata una certa variabile soglia di consumo, diventa sofferenza fisica l’astenervisi.

Il lettore malizioso che, leggendo piùsopra la descrizione degli effetti della Cannabis l’abbia pensata frutto di personali ricordi, si ricreda. E’ invece una traduzione abbastanza fedele di una pagina pubblicata, non da Timothy Leary, ma dal farmacologo inglese Robert Christison, e non in una rivista alternativa, ma in un commento tecnico alle Farmacopee Britannica e Statunitense, pubblicato a Filadelfia nel 1848.

NèChristison era solo, tra gli uomini di scienza della sua generazione, ad interessarsi alle proprietàmediche dell’hashish ed alle sue potenzialitàterapeutiche. Al contrario:

basti pensare al medico francese Moreau de Tours ed alla sua monografia, bellissima ed ormai introvabile, Le Hachich et l'Aliénation Mentale. Infatti, che la Cannabis avesse azioni potenti e caratteristiche, distinte da quelle di ogni altra pianta psicotropa, era nell’Ottocento cosa assodata da un pezzo.

E che questi effetti fossero opera di una sostanza, di un “principio attivòospitato nelle foglie e nelle infiorescenze dall’odore viroso, tutti Io sospettavano. Ma nessuno era riuscito a dimostrarlo. Ancora nel secondo dopoguerra, un repertorio di medicamenti ad uso del farmacista Italiano, elencava, sotto la voce “Canape”questi componenti chimici: “cannabina, ossicannabina, cannabinina, tetanocannabina (sostanze poco bene definite), cannabinone, cannabinolo, olio essen-ziale (0.3%). A quest’ultimo si attribuisce l’attivitàfarmacologica della droga.”(si noti che il termine “droga”qui indica la parte farmacologicamente utile della pianta).

Cosa ci fosse di preciso in quest’olio essenziale continuòa rimanere poco chiaro fino a quando, nel 1964, il giovane chimico israeliano Raphael Mechoulam, annunciòd’essere riuscito ad isolarne il principio attivo: in una breve nota pubblicata sul Journal of the American Chemical Society, Mechoulam identificòquesto principio in un nuovo derivato idrogenato del cannabinolo, il Ä9-tetraidrocannabinolo (Ä9-THC), capace di produrre nell’uomo effetti non dissimili a quelli dell’hashish o della marijuana.

Niente, ho detto prima, ha in comune la Cannabis con la coca o con l’oppio: e questa diversitàcomincia giàdalla struttura chimica del Ä9-THC. I principi attivi contenuti

nella coca (cocaina) e nell’oppio (morfina e codeina soprattutto) sono, seguendo la terminologia chimica, degli alcaloidi. Come gli alcali inorganici, cioè, possiedono sulla loro molecola una debolissima carica elettrica che conferisce loro una certa affinitàper l’acqua, che èa sua volta un dipolo elettrico. Perciòla cocaina e la morfina si sciolgono facilmente nel sangue e nelle altre soluzioni acquose che bagnano in nostri organi interni, compreso il cervello. Il A9-THC, invece no: non èun alcaloide e non èper nulla carico elettricamente. Anzi, èsostanza “lipofila”, che non èuna rara turba sessuale bensìuna preferenza a sciogliersi nei grassi. E di grassi sono fatte le membrane che separano tutte le nostre cellule dal resto del mondo: sacchetti lipidici in cui galleggiano decine di migliaia di proteine dalle forme e dalle funzioni piùdiverse, come i recettori, che captano messaggi chimici lanciati da una cellula all’altra, e gli enzimi, che rendono veloci una frazione di secondo reazioni che altrimenti metterebbero secoli ad avvenire. Che importanza puòavere mai il fatto che il Ä9-THC sia sostanza lipofila? Storicamente, enorme. E per comprenderla dobbiamo fare una breve deviazione d’itinerario, e ricordare al paziente Lettore attraverso quali meccanismi operano le sostanze psicoattive. Prendiamo l’esempio della morfina. Iniettata endovena, questa penetra lentamente attraverso la barriera di cellule che separa il sangue dal sistema nervoso, e raggiunge il cervello. Lì, benchéentri in contatto con praticamente tutte le cellule cerebrali, essa interagisce soltanto ad una popolazione molto limitata di cellule: quelle che portano sulla superficie esterna della propria membrana dei recettori che “riconoscono”specificamente la morfina, come una serratura “riconosce”la propria chiave. Tutte, ma proprio tutte, le azioni della morfina (dall’euforia alla stitichezza) sono una conseguenza di questo temporaneo legarsi a degli specifici recettori di membrana. Legame che cambia la forma dei recettori (non parlo metaforicamente: èproprio quello che succede), li fa urtare con degli enzimi che si trovano accanto e li costringe, con stupefacente rapiditàe selettività, ad avviare una serie di reazioni chimiche che finiscono col modificare l’eccitabilitàdelle cellule nervose, cioèla loro capacitàdi sentire gli stimoli lanciati dalle cellule vicine e di rispondervi.

Cosa ha tutto ciòa che vedere con il Ä9-THC la sua lipofìlia? Questo: che per ventiquattro anni, dal 1964 al 1988, l’opinione prevalente tra farmacologi e neurobiologi era che una sostanza lipofila come il Ä9-THC non potesse agire come la morfina (sostanza invece idrofila) ma piuttosto che si sciogliesse nella matrice lipidica della membrana e ne modificasse in maniera non selettiva le proprietàbiochimiche. A questa teoria del Ä9-THC come “sapone neuronale”alcuni scienziati piùavveduti opponevano un’obiezione dettata dal semplice spirito d’osservazione e dal buon senso (che fanno difetto tra gli scienziati come tra ogni altra categoria professionale): se il meccanismo d’azione del Ä9-THC ècosìaspecifico, arguivano questi, perchéi suoi effetti sono invece cosìsmaccatamente diversi da ogni altra sostanza psicoattiva, perchécosìcaratteristici ed irripetibili? Questa pattuglia di anticonformisti non era composta da eretici, ma da gente sensata che ragionando per analogia si domandava: e se il Ä9-THC avesse, come la morfina, un suo recettore specifico? Ipotesi plausibile che, senza prove sperimentali, suscitava peròsolo qualche scettica alzata di spalle.

La prima prova irrefutabile che un recettore per il Ä9-THC esiste davvero arrivòinaspettatamente e, come spesso accade, del tutto per caso. Successe quando un gruppo di ricercatori del National Institute of Health di Bethesda, USA, stava “andando per recettori”. Già, perchéoggigiorno si puòandare per recettori come si va per funghi, che si aspetta la stagione, si va nel tal bosco, sotto quel tale albero, eccetera. Ad andar per recettori non ci vuole il barboncino come per i tartufi, ma basta avere un po’ di fondi per la ricerca ed un’idea di quello che si vuole. Vediamo come.

I recettori sono delle proteine, e come tutte le proteine, sono modellati su uno “stampo”

fatto di acido ribonucleico (RNA) “messaggero che a sua volta èmodellato su uno stampo di acido deossiribonucleico (DNA). Siccome i recettori fanno in fondo un po' tutti lo stesso

mestiere, che èdi riconoscere un messaggio chimico extracellulare e trasmetterlo all’interno della cellula, giocoforza si somigliano un po’ tutti (analogia: pipistrello, passero e pterodattilo sono animali assai diversi, ma hanno in comune un elemento di base necessario a volare, le ali ).

Le omologie tra recettori diversi non sono grandi, diciamo il 10-20%, ma bastano al biologo molecolare per giocare d’astuzia. Questi fabbrica dei frammenti di DNA che contengono le sequenze omologhe, e li aggiunge a degli estratti in cui sono presenti tutti gli RNA cellulari (svariati milioni). Per ragioni di affinitàchimica, il DNA artificiale va a legarsi ai vari RNA a cui corrisponde e solo a quelli. Basta aggiungere a questo punto all’estratto certi enzimi che, trovato l’RNA del recettore legato al DNA artificiale, lo usano come stampo per fabbricare il DNA completo del recettore, e non contenti, producono questo DNA in milioni di copie. Che èpoi lo scopo desiderato: il DNA del recettore èadesso in quantitàtale da poter essere isolato (“donato”) ed analizzato come si deve.

Adesso che sappiamo come si dona un recettore, possiamo ritornare al nostro gruppo di ricercatori Americani: ora abbiamo capito che loro “andavano per recettori”nel senso che non cercavano un recettore in particolare, ma che gettavano l’amo nell’acqua senza stare a porsi troppi problemi. E gli èandata bene, come ci raccontano in un breve articolo (gli articoli scientifici lo sono quasi tutti, altrimenti nessuno li legge) comparso sulla rivista Britannica Nature. Dopo aver isolato, come abbiamo visto sopra, il DNA di un recetttore ignoto, i Nostri l’hanno deposto nel nucleo di un fibroblasto (un tipo di cellula che resiste ai piùinfami maltrattamenti genetici rimanendo, malgrado tutto, disperata-mente normale). Il fibroblasto ha scambiato questo DNA estraneo per uno dei suoi e si èmesso a produrre il recettore che vi era codificato come se fosse stata una delle proprie proteine. E nel frattempo si èriprodotto, formando milioni e milioni di fibroblasti, che esprimevano tutti l’ignoto recettore. A questo punto, per scoprire quale sostanza vi si legasse, i Nostri hanno dovuto provare uno per uno una lunga serie di composti, fino a trovare quello giusto, il Ä9-THC appunto.

Il lettore che ha avuto la benevolenza di seguirmi fin qui, avràforse anche l’astuzia di pormi a questo punto una domanda. Se i recettori servono a captare i messaggi chimici che le cellule si lanciano l’un l’altra, che ci fa nel nostro corpo il recettore per una sostanza prodotta da una pianta? Ancora si trattasse di un composto odorante o di un feromone, si capirebbe; ma una sostanza psicoattiva? Perché?

Esclusa la possibilitàche l’Evoluzione abbia previsto la beat generation, resta quella che il recettore riconosca il A9-THC per errore, perchélo scambia per un’altra sostanza. Una sostanza endogena che, liberata dalle cellule nervose, potrebbe produrre quell’insieme di sensazioni psichiche e di effetti fisiologici che sono caratteristici della Cannabis. Ma se questa sostanza cannabinoide endogena esiste, come si puòfare per provarlo?

In teoria, èfacile come seguire una ricetta di cucina. Si prende un cervello (preferibilmente abbastanza grande, per esempio di bue), se ne fa un estratto (che ècome preparare un omogeneizzato) e se ne separano le sue varie componenti chimiche (qui giàla cosa si fa piùdifficile). Poi si determina se una di queste componenti si lega specificamente al recettore del Ä9-THC. Trovatala, se ne stabilisce la struttura chimica: quod erat demonstrandum.

Fin qui tutto bene. Eccetto che, tra proteine peptidi lipidi semplici e complessi carboidrati e chi piu’ ne ha piu’ ne metta, nel cervello di un mammifero risiedono svariati milioni di molecole, tra cui quella che ci interessa- la sostanza cannabinoide endogena. La quale, come se non bastasse, rappresenta molto probabilmente solo una frazione infinitesimale delle sostanze presenti nel nostro estratto di partenza: il proverbiale ago nel pagliaio.

E allora? Allora ci vuole astuzia, molta, fortuna, quanto basta, ed olio di gomito, moltissimo. Chi ha l’idea giusta, ci crede, ed èdisposto a lavorarci sopra, èin genere quello che alla fine

vince il piatto. Nel nostro caso l’idea giusta l’ha avuta ancora una volta Raphael Mechoulam, che dopo aver identificato il Ä9-THC vi ha dedicato tutta la propria carriera scientifica. Da buon chimico, e ragionando per analogia, Mechoulam si èdetto: il recettore cannabinoide riconosce il Ä9-THC che èsostanza di natura lipofila. Sembra possibile, allora, che anche il cannabinoide endogeno sia lipofilo. Se vero, questo faciliterebbe parecchio le cose: un estratto dei soli lipidi contiene ovviamente un numero molto minore di composti chimici che un estratto totale, ed èperciòmolto piùsemplice da analizzare. Un’idea semplificatrice, una buona idea dunque. Ma anche un’idea giusta. Infatti, due anni dopo averla avuta, e dopo aver omogeneizzato ed estratto molti cervelli di maiale, Mechoulam annunciava alla comu-nitàscientifica internazionale, sulle pagine della rivista Americana Science, la purificazione e l’identificazione chimica di una molecola endogena dotata di attivitàbiologiche simili al Ä9-THC.

La sua ipotesi di partenza era corretta: si trattava in effetti di una sostanza lipofila, come il Ä9-THC, ma dalla struttura chimica molto diversa da quest’ultimo e sorprendentemente piùsemplice. Niente anelli del furano, niente catene laterali, niente stereochimica complessa. Un acido grasso polinsaturo (come quelli che si trovano nell’olio d’oliva), condensato all’etanolammina (una piccola molecola che funge da precursore per fosfolipidi come la cefalina). L’acido grasso si chiama “acido arachidonico”: il nome chimico della sostanza cannabinoide endogena èdunque arachidonil-etanolammide. Ma Mechoulam, che ha un debole per la cultura indiana, preferisce battezzarla anandammide, dal sanscrito ananda “gioia profonda”. (Chi ha letto di cose Indiane ricorderàla formula SSat-Chit-Ananda, “Essere, Coscienza, Gioia”.)

La scoperta dell’anandammide èdel Dicembre 1992. Nel periodo di poco piùdi un anno che ha seguito la sua apparizione su Science, diversi laboratori hanno confermato ed esteso il lavoro di Mechoulam e dei suoi collaboratori, dimostrando come la somministrazione di anandammide provochi un insieme di sintomi psicofisici molto simili a quelli causati dal consumo di hashish o di marijuana.

Questi risultati confermano l’attivitàcannabinoide dell’anandammide, ma lasciano irrisolto un problema essenziale: perchéil nostro cervello la produce? In quale momento del nostro tran-tran di animali sociali o della nostra vita interiore ne abbiamo bisogno? Forse quando ci viene improvvisamente svelata la comicitànascosta in un comportamento o in un oggetto, che ci era sfuggita fino ad allora? O quando c’èil sole, e siamo euforici e non sappiamo perché? O quando scriviamo una poesia, tracciamo un disegno, pensiamo una melodia? O semplicemente quando abbiamo voglia di mangiare un pezzo di cioccolata?

Dietro tutte queste domande, che sono senza risposta e lo resteranno ancora per un bel pezzo, ce ne sono altre, piùterra terra in apparenza. In quali cellule del sistema nervoso centrale si produce l’anandammide? Quali stimoli ne causano la produzione? Dove agisce, e come? Il neurobiologo èconvinto che, a queste domande almeno, delle risposte sperimentali siano possibili, e che queste possano illuminare le funzioni che l’anandammide svolge nel nostro comportamento quotidiano.

Da Galileo in poi, fare un esperimento vuoi dire innanzitutto immaginare un pezzo di realtàpossibile, che le manipolazioni sperimentali ed i loro risultati ci permettono o meno di considerare oltre che possibile, probabile. Allora, se apriamo il nostro Libro de los Seres Imaginarios, che cosa troviamo al paragrafo “Anandammide”?

Vi troviamo innanzitutto una cellula nervosa che, stimolata, produce anandammide e la

secerne nel liquido extracellulare. Lìl’anandammide entra in contatto con altre cellule e si lega temporaneamente a quelle che possiedono sulla loro superficie esterna il recettore cannabinoide. Il recettore trasmette la notizia che questo legame èavvenuto cambiando forma e costringendo proteine ed enzimi che gli sono vicino a fare lo stesso. Il messaggio èpassato all’interno della cellula, che puòallora aumentare o diminuire di eccitabilitàsecondo le caratteristiche che le sono proprie (le cellule nervose, si sa, non sono come quelle del fegato, e l’una non vale l’altra). Finito il suo compito, l’anandammide viene risucchiata via dal liquido extracellulare, ed i suoi effetti poco alla volta scompaiono.

In che regione del cervello possono aver luogo questi eventi? Nell’ippocampo, per esempio. Una piccola regione a forma di cavalluccio di mare situata giusto sotto la corteccia cerebrale, attraverso cui passano i cogitata et visa ,per andare a formare memorie stabili o a perdersi per sempre. L’ippocampo èricco di recettori cannabinoidi, la cui attivazione potrebbe causare la smemoratezza del fumatore di hashish. Oppure nell’ipotalamo. Una struttura alla base del cervello che regola molti di quei processi vitali che funzionano benissimo senza di noi, e sui quali la nostra coscienza, a meno di essere un guru, non ha alcun controllo: la fame, la sete, la temperatura corporea, gli stati emozionali. Anche l’ipotalamo, come l’ippocampo, contiene dei recettori cannabinoidi. Anche lìdunque la loro attivazione puòavere degli effetti importanti, per esempio quello di aumentare l’appetito - un “classico”del consumo di Cannabis. (In alcuni Paesi quest’effetto viene anche sfruttato in terapia, per alleviare la grave inappetenza causata da certi farmaci).

Chiudiamo il Libro de los Seres lmaginarios, e ritorniamo a noi. Abbiamo visto che aldilàdei suoi effetti farmacologici, la Cannabis ci ha aiutato a svelare un nuovo sistema di neurotrasmissione, che pur restando ancora in buona parte sconosciuto, promette di insegnarci molto sul funzionamento del cervello e della coscienza. Questa scoperta, che si colloca a fianco a quella dei peptidi endogeni ad azione morfino-simile, va a rafforzare una convinzione che fu giàdi Aldous Huxley e che èoggi condivisa da un numero giàpiùvasto di persone. Cioè, che il desiderio di trascendere il proprio stato normale, non foss’altro che per pochi istanti, èun profondo bisogno della coscienza umana, talmente radicato nella nostra natura biologica che nessun tentativo di sradicano, sia esso legale o educativo, potràsperare realisticamente di ottenere un successo duraturo.