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Da "Umanità Nova" n.22 del 6/7/97

BICAMERALE, OVVERO: COME OTTENERE LA CONTINUITA’ DI POTERE SULL’ESEMPIO DELLA DC SENZA POTERLO DICHIARARE

Tra i vari effetti perversi della logica professionale dell’attività politica vi è l’incomprensibilità pubblica di determinate situazioni ed eventi, che rafforzano una sensazione mista di impotenza, di deferenza verso una “casta di sacerdoti” che la sanno decifrare e far muovere, di disprezzo (“la politica è sempre una cosa sporca”), di arcana imperii (l’opacità costitutiva delle istituzioni di potere). Il cerchio si richiude su se stesso perché tali reazioni rafforzano, a loro volta, la spoliticizzazione delle masse, incitata dalla suddivisione professionale degli affari pubblici, a favore di un ceto che si esilia da esse crogiolandosi nelle torri d’avorio (ben profumate di ricchezze e privilegi anche simbolici). Una torre di recente invenzione è la Bicamerale.

All’estero va di moda da tempo narrare le cose italiane alla maniera etnologica, ad esempio come un marziano parlerebbe delle cose di calcio, cioè ironizzandoci sopra per dissimulare l’incapacità a comprendere realmente qualcosa. È una reazione moralistica e ai limiti dell’arroganza, perché la politica statuale degli altri paesi non è affatto più trasparente e comprensibile, forse solamente meno barocca e vivace. Tuttavia, come gli osservatori ben sanno che a seguire nei dettagli il contesto extracalcistico, per restare nell’esempio, si finisce col non capire nulla del gioco stesso del calcio, così anche noi italiani a forza di prestare soverchia futile attenzione alle virgole e alle pause cariche di vuoto dei vari leader quando esternano, cioè sempre, si finisce col perdere di vista le tendenze, le dinamiche, i processi carsici, più ampi in validità delle 12 ore canoniche tra l’alba e il tramonto. È il grande errore del giornalismo professionista, la cui esaltazione, anche tipografica, di uomini senza idee rafforza il personalismo in politica che spalanca le porte alla richiesta di individuazione plebiscitaria di leader salvifici in una democrazia maggioritaria. Quando i giornalisti si alimentano del disprezzo di alcuni leader verso la stampa di regime, dovrebbero ammettere la loro complicità, talvolta individuale, spesso logica, avendo già venduto il loro cervello.

Non che la Bicamerale lavori per farci capire qualcosa di costituzionalmente preciso, oscillando tra semi-freddo alla francese e kaiserato caldo all’israeliana (ma sì, aumentiamo la confusione...). Tuttavia va detto qualcosa di più per capire la voglia infinita di plebiscito, di governo duraturo, iniziando con lo sfatare il mito di instabilità: dal 1948 in poi ha sempre governato la DC, stato nello stato, governo e opposizione al governo insieme, che componeva in sé consensi e dissensi, che inglobava tutto e il contrario di tutto, con un effetto di stabilità immarcescibile, tanto che il suo ceto non si schiodava dalle poltrone se non dietro ordine immediato e inrinviabile al mittente nientemeno del padreterno in persona. A turno, a quel banchetto erano invitati frange a destra e a sinistra della Balena bianca, abituata a digerire tutto e tutti: una dittatura bianca durata 45 anni.

Il problema dopo la dissoluzione della DC è come ottenere lo stesso risultato di stabilità senza poterlo dichiarare programmaticamente (sarebbe poco fine, antidemocratico...). E allora occorre dissimulare l’uniformità di pensiero politico, di strategia politica (spesso dettata da forze sovrastanti l’agorà nostrana) dietro le sottili sfumature di stile e di tattica, che reggono la manfrina del bipolarismo artificioso creato dal regime maggioritario. Talmente artefatto che solo in Italia reggono i partitini di centro che, col passare del tempo, sperano di vanificare il disegno a loro spese, imponendosi come forze frammentate di ricatto e interdizione, con ciò denudando l’effetto illusorio dell’alternanza (a ciò aspirano i vecchi democristiani sparsi tra Ppi, Ccd e Cdu, ma già ci è riuscito un vecchio andreottiano come Dini, al governo col centrodestra e col centrosinistra, in proprio e con altri...).

Ma la scena della rappresentanza istituzionale (in senso letterale, non metaforico) non si risolve solo in questo. Si sarà notato come, a differenza dei tempi “tirannosauri” della politica, altre cose viaggiano sui velocità di trasformazione stratosferica: cambiano le mappe del potere economico e finanziario, mutano gli scenari europei e mondiali a livello delle telecomunicazioni, si trasformano apparati sovranazionali come l’Organizzazione del commercio mondiale e la stessa Onu, per non dire la Nato nell’immediato futuro. Ora la politica italiana non aspira certo a diventare attore di questi mutamenti: troppo stupida, troppo miope, troppo debole, dipendente da poteri realmente forti. Il suo ceto si accontenta di piazzassi in pole position per intercettare flussi di potere che vorticosamente fanno salire e scendere fortune personali collettive, attirandole o espellendole dalle proprie orbite frenetiche. Così la lotta mimata per mutare parte della Costituzione, ridisegnando gli equilibri tra i poteri legittimi, ha il suo obiettivo di battezzare un nuovo ceto politico la cui selezione è stata in parte ottenuta attraverso una scrematura giudiziaria che occorre arrestare prima che il sapore di una autonomia pervada l’intero corpo della magistratura, notoriamente asservito al potere costituito.

La confusione della transizione non consente all’elettorato di attivare l’altra parte di ogni procedimento tradizionale di selezione del personale politico, perché il gioco e le sue regole sono truccate in partenza: accede al palcoscenico solo chi spera una selezione ce non è determinata da regole democratiche (cioè le elezioni) bensì dalla cooptazione simil-feudale nel ceto politico dei partiti (anche quelli “aziendali”). Solo dopo ci si presenta per la “ratifica” elettorale, che subisce il dispiegamento di potenti mezzi di pressione, finanziari e immaginari (la propaganda nei mass media), tranne alcune eccezioni, tra cui la Lega e Di Pietro, che vanno isolate proprio perché dimostrano di saper scavalcare le mediazioni politiche di accesso alla sfera pubblica statuale, dando fondo ai detriti pii osceni di una opinione pubblica spoliticizzata ad arte. In questi casi si invoca una maturità dell’elettorato per una scelta razionale contro la secessione o contro l’uomo forte, come se il cittadino avesse altri strumenti culturali e politici per decifrare il contesto, vagliare rischi e opportunità, controllare il potere e poi scegliere il raziocinio... Ma se è stato bombardato apposta negli anni ‘70 e ‘80 (in senso letterale prima e metaforico poi) perché delegasse la coscienza politica agli incantatori del reame! Così sono finiti pure i referendum, usati non più come arma semi-diretta contro il Parlamento (che poi rivince quando legifera), ma come strumento di battaglia politica tra le correnti del partito unico, con la misera parabola di Pannella che, smesse le vesti dissonanti del Falstaff italiano per rivestire quelle più pietose del Pierino falsamente scardinante, mira a reinserirsi nella trama di ricatti incrociati abusando del referendum. Il gioco non gli è riuscito perché mass media ed elettori hanno fatto altre scelte di elusione passiva.

Quali risorse ricavare da queste considerazioni? La politica effimera si astrae dai problemi sociali, lasciati ai poteri forti non legittimati da procedure democratiche (a turno, il mercato del lavoro, la globalizzazione, la moneta unica, l’Unione europea, le banche centrali). Tutta la posta si gioca nelle trovate per appassionare i cittadini a sentirsi ancora partecipi a una messa-in-scena da cui sono scartati pur come spettatori, paganti beninteso. I mezzi di riattivazione del legame istituzionale sono potenti e seducenti perché creano ancora (ma fino a quando?) l’illusione che questa politica serva a qualcosa che non si identifichi solo , esclusivamente e perfettamente con gli interessi del ceto politico e i suoi privilegi. L’elusione politica, l’esodo elettorale, l’evasione fiscale, la disaffezione sociale sono tenute in conto, ma la soglia oltre la quale l’elastico che tiene insieme politica e masse non è individuabile a priori. Le istituzioni si cautelano, da una lato autonomizzando appunto l’architettura politica, costituzionale e parlamentare del consenso (tipo Stati Uniti, dove si governa sempre in minoranza rispetto alla popolazione); dall’altra facendo scatenare passioni torbide di nichilismo apatico e anomico: nessun legame sociale, se del caso muoiano questo stato con tutti filistei, sotto le macerie verranno sepolte le velleità di ricostruzione di una società differente, che si muova lungo pratiche che valorizzino altre istanze significative per il consenso, il benessere e la felicità si tutti e di ciascuno, e sopra le macerie qualcun altro costruirà un ennesimo regime dispotico, che magari non si chiamerà più stato nazionale ma appendice del potere unico planetario.

Ecco in sintesi un quadro plausibile, scevro da ogni pessimismo o catastrofismo. La lotta va contestualizzata non più nel solco della contrapposizione con questa politica, bensì nel solco dell’affermazione anticipatrice di pratiche altre che mantengano in vita opportunità, memoria, progettualità e legami orizzontali da utilizzare e valorizzare nel momento in cui occorrerà saper sviluppare un processo di edificazione di una società altra, che sappia fare a meno di servi e di padroni, di dio e di stato, perché questi saranno implosi e altri potranno inserirsi in un vuoto che andrà colmato, attraverso pratiche e culture di vita, prima .

Salvo Vaccaro



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