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Dal Bollettino "Arcipelago" 1998 [Umanitý Nova del 19 luglio 1998]

Welfare ed autogestione

E' dall'epoca del neoliberismo montante, quello della Thatcher e di Reagan per intenderci, che il "Welfare State" è nell'occhio del ciclone.

Le critiche si incentrano sulla sua crisi e sulla necessità del superamento di un modello che, si vuole, ormai esaurito. E se da destra si elevano anatemi, la sinistra (per lo più socialdemocratica) non è da meno nel proporre modificazioni strutturali in grado di affossare definitivamente tutto quel sistema di protezione e di assistenza sociale basto sulla centralità dello Stato e delle sue istituzioni pubbliche.

Così mentre da una parte si mette l'accento sui costi "smisurati" di apparati burocratici pervasi da logiche stataliste, dall'altra si persegue nella richiesta di una ristrutturazione radicale funzionale alle compatibilità economiche ed al contenimento della spesa pubblica.

Il risultato è lo stesso: stretto tra due fuochi il "welfare state" pare arrivato alla fine della sua epoca trascinando con se l'utopia universalista che vedeva nello Stato lo strumento di distribuzione della ricchezza sociale.

L'alternativa che si offre da parte neoliberista non pare particolarmente originale: il ritorno al mercato con la privatizzazione dei servizi sociali è solo l'affermazione, pura e semplice, della legge del denaro, base di ogni forma di darwinismo sociale a spese dei ceti più deboli e meno protetti.

Uno scenario questo che spinge molti ad una difesa a riccio di un modello che fa acqua da molte parti, e non tanto da un punto di vista economico, che a quello si potrebbe far fronte, volendo, con una più decisa azione nei confronti della ricchezza accumulata sul lavoro salariato. Ma che fa acqua piuttosto nella sua capacità di rispondere alla crescita diversificata dei bisogni, sia individuali che collettivi, frutto di una complessità crescente delle società attuali, ben lontane da quella che stava all'origine di quel sistema centralizzato e massificato che costituiva appunto il "welfare state".

Ma non c'è solo questo. Il patto sociale che stava alla base dell'accordo tra capitale e lavoro (un accordo sia chiaro conquistato, mantenuto e sviluppato con la lotta) e che ha permesso il consolidamento di pratiche di consolidamento sociale è stato infranto. Il padronato alle prese con i processi di globalizzazione finanziaria, con il superamento dell'economia legata allo Stato-nazione , con la riorganizzazione del lavoro in chiave post-fordista e delocalizzante, non è più interessato a quel patto che aveva comunque introdotto rigidità e garanzie di cui occorreva tener conto e che oggi rappresentano un fardello sul piano della competizione con aree ove il lavoro si compra con quattro soldi grazie al ricatto della fame.

Ma se il "welfare state" è in crisi, non è in crisi il "welfare" vero e proprio, cioè quell'insieme di bisogni che solo l'edificazione di un sistema basato sulla giustizia sociale, l'eguaglianza e la libertà può soddisfare.

Il problema della difesa dei settori più deboli della società, marginali, non assistiti cui far fronte con pratiche di solidarietà sociale, il problema stesso del rapporto delle aree più ricche e quelle più povere del paese, ma anche del continente e del pianeta, possono e devono trovare soluzione che non sia quella devastante basata sull'affermazione dell'individuo economico e che solo con il ricorso al mercato impone la sua visione sociale del mondo fatta di gerarchie e di esclusioni.

A questi bisogni, a questi problemi, può dare una risposta chi si rifà all'esperienza dell'autorganizzazione, delle comunità dal basso, del mutuo appoggio. Chi, in sostanza, ha sempre evidenziato i limiti di un sistema quale quello del Welfare che per la sua affermazione ha deliberatamente distrutto tutte le forme di autorganizzazione sociale e comunitaria preesistente, prodotte dall'intelligenza e dalla sensibilità dei salariati a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, e che costituivano un vero e proprio nucleo fondante della controsocietà proletaria in divenire. Anche in questo campo la statalizzazione del movimento operaio ha comportato la burocratizzazione e l'integrazione delle strutture di base dell'assistenza e di mutuo appoggio nell'illusione che le garanzie pubbliche venissero esaltate dal sistema statale.

Oggi di fronte all'attacco neoliberista quella strada è stata ripresa da vari soggetti sociali, sensibili alla pratica della solidarietà concreta: Volontariato, cooperative sociali, organismi mutualistici, associazioni varie, stanno crescendo di giorno in giorno per occupare quello spazio che la crisi del "welfare state" sta liberando. E' un settore nuovo in movimento, il cosiddetto terzo settore, che pare riproporre la centralità dell'autorganizzazione dal basso, come modo più confacente alla soddisfacimento dei bisogni sociali.

Siamo quindi di fronte al sorgere del sol dell'avvenire?

La questione è chiaramente più complessa.

La dismissione di pezzi importanti del servizio pubblico da parte dello stato non può che comportare l'assunzione degli stessi o da parte di imprese interessate al profitto o da parte di settori sociali che colgono l'importanza di continuare ad garantire quel servizio.

Nel primo caso avremmo un'alienazione privatistica di un bene pubblico, nel secondo caso un possibile tentativo di autorganizzazione dal basso del soddisfacimento di un bisogno. Se così fosse saremmo di fronte alla ripresa di quel filo interrotto dalla statalizzazione. Poiché però l'ingerenza statalista è dura a morire dobbiamo continuare a registrare una continua attività dello stato a sostegno ora dell'impresa ora del terzo settore, individuati entrambi come mezzi per l'ottenimento di obbiettivi, a basso costo, di contenimento sociale.

Ecco quindi la legislazione recente riguardante il terzo settore quasi a volerlo garantire da ogni tipo di scivolone autenticamente autogestionario. Il mantenerlo all'interno delle compatibilità capitaliste garantisce da una parte dell'esigenza di efficaci ammortizzatori sociali a basso costo e dall'altra della loro capacità di imbottigliamento di individui e realtà particolarmente sensibili alle problematiche sociali sul versante istituzionale.

Eppure l'esistenza di un settore autorganizzato di pratiche mutualiste e comunitarie rappresenta un terreno importante per la diffusione di un pensiero che non sia semplicemente di resistenza o di soddisfacimento di un bisogno immediato.

Ciò non vuol dire che non sia possibile a breve che queste strutture cadano in pieno nella logica d'impresa o di riproduzione di ceto, ma semplicemente che esse rappresentano oggi uno spazio di incontro e di intervento comunque importante per quanti vedono nell'autogestione un modello di riorganizzazione libertaria ed egualitaria della società. Un terreno di riflessione e di intervento che i libertari non possono trascurare.

Massimo Varengo



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