unlogopiccolo

Dal Bollettino "Arcipelago" 1998 [Umanitý Nova del 19 luglio 1998]

Mutualismo e autogestione: un'esperienza del passato che può avere un futuro?

"I filosofi pessimisti concludono trionfalmente che la guerra e l'oppressione sono l'essenza stessa della natura umana...... esagerano la parte della vita votata alle lotte e ne trascurano i lati pacifici...Trasmettono alla posterità le più minuziose descrizioni di ogni guerra, di ogni atto di violenza, mentre appena appena rilevano qualche traccia degli innumerevoli atti di solidarietà e di devozione che ognuno di noi conosce per propria esperienza .....Tutta la storia tratta della violazione della pace, non della pace stessa" [Kropotkin, Il Mutuo appoggio]

Di fronte agli sviluppi di importanti movimenti politico-sociali che raccolgono, interpretano e sollevano nella sfera pubblica quell'amplissimo spazio dell'azione solidale e dell'agire cooperativo, mi chiedo, con impazienza ed affanno, se non si imponga una grande, radicale iniziativa culturale e scientifica volta a rischiarare la faccia nascosta della luna, mettendo in luce, come direbbe Kropotkin, quanto la "logica dell'aiuto reciproco" sia di tanto maggiore importanza della "logica della lotta reciproca" nel successo e nel progresso della vita.

Certamente mentre declina questo 900 non possiamo permetterci un ingenuo ottimismo antropologico: Auschwitz, Hiroshima e l'emergenza ecologica hanno impresso nella coscienza di ciascuno di noi l'indelebile e minacciosa presenza del cratere senza fondo della distruttività e dell'aggressività umane.

Ma proprio perché siamo costretti a vivere, attenti e vigili, sull'orlo del cratere sempre aperto della aggressività si accende l'ansia e l'urgenza del comunicare, pur sapendo che non ci sono scorciatoie massmediatiche: comunicare attraverso il fare, comunicare attraverso l'associare, comunicare nell'incontro faccia a faccia.

(...) Credo che proprio nei momenti di grande discontinuità e di profonda rottura sia estremamente importante spremere il passato per cercare di sfuggire all'alternativa micidiale tra il cieco brancolare e l'automatico replicare.

La memoria, che rifiuta l'amnesia dell'immediatismo e che rifugge dalla nostalgia passatista, la memoria che sa fare i conti con le lezioni della storia è un irrinunciabile atto vitale compiuto nel presente in nome di una sfida verso il futuro.

Senza "reinventare una tradizione" è difficile elaborare una teoria critica del presente che apra verso il futuro.

Quale può essere allora il significato, il senso e la ragione dell'accostamento tra la voce arcaica "mutualità" e il neologismo "terzo settore"?

Voglio fare alcuni cenni brevi su ciò che a grandi linee si intende per mutualismo.

Quando parliamo di mutualità facciamo riferimento a quelle associazioni operaie, sorte in Europa nel corso dell'800, che avevano lo scopo di sostenere e assistere i lavoratori negli ambiti della vita, cioè nella sfera della riproduzione.

Esse erano di due tipi:

le società di mutuo soccorso che assistevano i soci di fronte ai rischi della disoccupazione, dell'infortunio e della malattia , della vecchiaia e della morte;

le cooperative che difendevano il lavoratore dalla speculazione commerciale (cooperative di consumo) e quelle che promuovevano risposte alla mancanza di lavoro (cooperative di produzione).

Il primo associazionismo operaio si sviluppa come autogestione solidale di forme di autotutela rispetto ai gravissimi rischi che incombevano sulle condizioni di esistenza dei lavoratori.

Il patto di "mutuo soccorso" tra lavoratori fa sì che la sventura individuale non produca più dei "bisognosi" (oggetto delle pratiche asimmetriche ed arbitrarie della carità e della beneficenza), ma che si facciano avanti dei soggetti, i quali, in quanto "soci", sono portatori del diritto ad esigere l'obbligo di tutela da parte della propria associazione.

A queste forme di autotutela negli ambiti della vita si sono aggiunte poi le forme della lotta rivendicativa concentrata sul rapporto di produzione.

La mutualità rappresenta però una esperienza associativa profondamente diversa dalla rivendicazione sindacale.

Possiamo dire che il primo è un associazionismo per, mentre il secondo è un associazionismo contro.

La resistenza sindacale tende a strappare con la lotta la concessione di un obiettivo dall'alto.

L'azione mutualistica tende invece a praticare l'obiettivo, a costruire dal basso il risultato attraverso l'esperienza di un far da sé solidale.

Nell'associazionismo contro prevalgono le solidarietà negative, nell'associazionismo per si alimentano le solidarietà positive.

L'intreccio tra mutualità e resistenza, che caratterizzò le origini del movimento operaio, tendeva a coprire l'intera esistenza dell'umanità al lavoro e a collegare nell'esperienza e nella conoscenza ambiti di vita e ambiti di lavoro.

Questa visione integrale della persona che vive e che lavora è andata smarrita nel sindacalismo del novecento.

l produttivismo lavorista del sindacalismo del 900 perde il rapporto con la sfera riproduttiva: l'ambito della vita diventa il vuoto del non-lavoro: colui che non lavora perché disoccupato, perché invalido, perché anziano viene abbandonato dalla associazione dei produttori per essere affidato alla amministrazione dello stato sociale o alla cura domestica della donna.

Nella multiforme galassia dell'economia solidale si riattiva il raccordo operativo e conoscitivo tra ambiti di vita ed ambiti di lavoro, mentre, mi sembra, che attraverso queste esperienze stia per ridiventare un patrimonio di massa quell' "associazionismo per" che mobilita solidarietà positive impegnate nella costruzione autonoma e solidale delle soluzioni ai propri problemi.

In questo senso mi sembra di cogliere il prolungarsi di una tradizione sommersa, di una tradizione offuscata dal "combattentismo lavorista" del 900. (...)

Sidacalismo rivendicativo teso a strappare conquiste al mercato e partito politico in lotta per la conquista dello Stato hanno cementato solidarietà battagliere, hanno generato macchine politiche centralizzate, animate da ideologie compatte e basate sull'inquadramento disciplinare che hanno travolto l'associazionismo volontario, pluralistico, confederale ed autogestionale che era l'utopia concreta del socialismo della mutualità e della resistenza.

L'esperienza novecentesca è stata segnata dalle grandi semplificazioni, ed è stata, nel suo profilo essenziale, sostanzialmente manichea: stato o mercato, individualismo o collettivismo, società senza individui progettate da visioni olistiche della nazione, della classe o dello stato organico, oppure individui senza società mobilitati dalle culture utilitaristiche e dal darwinismo sociale.

Vedo una convergenza profonda e feconda tra l'ispirazione dell'economia solidale di oggi e il vecchio mutualismo: il rifiuto di questi dualismi ultimativi, la ricerca di una "terza dimensione" (che è qualche cosa di più del "terzo settore"). Quella che Georges Gurvitch, nella sua Dichiarazione dei diritti sociali, chiamava sinteticamente socializzare senza statizzare.

Quando parlo del mutualismo c'è chi mi accusa di voler uscire dal 900 ritornando all'800, c'è chi pensa che intenda proporre addirittura le vecchie società di mutuo soccorso come rimedio alla crisi dello Stato sociale.

Ritengo che risulti chiaro che il mio intento è altro.

Il movimento operaio di questo secolo si è costruito una storia sacra e una religione laica come strumenti di identità e di mobilitazione ideale. Cadute queste costruzioni oggi si corre il rischio di restare senza storia e senza ideali.

Quando parlo di reinventare la tradizione non intendo proporre un'altra storia o altre ideologie, ma propongo di rivisitare la complessità delle esperienze del passato, di raccogliere stimoli dalle idee e dai dibattiti di un socialismo dalle molteplici scuole, esplorare il passato come aiuto a meglio precisare gli interrogativi del presente

Nella grande transizione che ha subìto l'Europa economica e sociale nella seconda metà dell'800, vi è stata una prodigiosa, grandiosa opera di invenzione sociale: dalle società di mutuo soccorso, alla cooperazione di consumo e di produzione, dalle casse di resistenza alla grande articolazione verticale ed orizzontale della vita sindacale, dalle Università popolari ai movimenti ed alle associazioni femminili sino alla creazione del partito politico di massa....

E il filo rosso di questa vicenda era lo sforzo di far convergere la conquista della "sicurezza" con lo sviluppo radicale della "libertà" come autonoma partecipazione sociale a tutti quei processi decisionali dai quali dipendono il proprio lavoro e la propria vita.

Il grande tema autogestionale e del controllo operaio.

L'aspetto più inquietante di questo nostro presente mi sembra consistere nel fatto che, di fronte a grandi trasformazioni, scomposizioni e destabilizzazioni, mentre insorgono nuove insicurezze che minacciano rischi ma aprono anche opportunità, noi veniamo a trovarci di fronte ad una impotenza istituente della società civile: la drammatica incapacità a ritrovare le basi morali e materiali dalle quali far operare lo scatto di dignità, di creatività e di operosità dell'orgoglioso "far da sé solidaristico", che fa germinare dal basso nuovi corpi intermedi associativi autogestiti che si collocano tra la società degli individui e la società politico-statuale.

La colonizzazione statale della vita sociale e la colonizzazione consumistico-mercantile della vita privata ci hanno come svuotati, impoveriti, ci hanno resi tutti "clienti dello Stato" e "mercenari delle imprese".

Ma il "benessere sotto impresa" e la "sicurezza di Stato", che sono state le colonne portanti del compromesso socialdemocratico di questo secolo, culminato nel "glorioso trentennio" (1945-1975), sono in crisi irrimediabile e lasciano un tessuto sociale più spoglio, margini di autonomie più ristretti, un gusto della libertà estenuato.

Di fronte agli scenari di mutamento sconvolgente di fine secolo si ripete una analisi sterile e ripetitiva che non fa fare grandi passi avanti: mondializzazione dei mercati e finanziarizzazione del capitale, rivoluzione informatica e post-fordismo.

Direi che sarebbe tempo di rovesciare completamente il punto di vista. (...)

Io incomincerei con il chiedermi: ma ancora esiste una questione sociale?

E se esiste quale è la sua dimensione spaziale, come si declina nella geografia mondiale? (...)

Quali sono ora, oggi, i diversi mondi della sofferenza e dell'oppressione sociali che si muovono dentro il mondo della questione sociale?

La terza domanda che mi porrei è la seguente: la questione del lavoro salariato come si colloca all'interno di questo diversificato spazio dell'ineguaglianza e della oppressione e quale è il suo ruolo attuale come leva dei processi di riscatto e di emancipazione?

(...) Come si colloca oggi la questione del lavoro all'interno della questione sociale del nostro tempo e del nostro mondo?

Quale è l'avvenire del lavoro? fine del lavoro? fine della società salariale? Lavoro servile? lavoro liberato dalla rivoluzione elettronica?

Vedo una strana alleanza tra gli apocalittici integrati di estrema sinistra e i trionfalisti apologeti della "fine della storia": un capitalismo onnipotente, universale ed eterno si dispiega nello spazio e nel tempo.

Il limite del capitale non è nell'economia capitalistica, ma è nella società, nella irriducibile ed imprevedibile malattia della libertà che circola nell'umanità assoggettata ed alienata, malattia potenzialmente epidemica che nessun sistema d'ordine riesce a debellare definitivamente.

Rovesciamento del punto di vista dunque: dalla mondializzazione alla questione sociale mondiale, dal capitale finanziario alle soggettività resistenti ed emergenti, dal post-fordismo agli uomini ed alle donne concretamente e variamente al lavoro in questo momento.

(...)Quale è la collocazione del lavoro, ci eravamo chiesti, nella nuova configurazione della questione sociale?

Mentre non riesco più a vedere le vecchie forme della classe operaia generale combattente, ritengo che, in forme nuove ed inedite, la questione del lavoro resti ancora il "midollo" della questione sociale.

La disgiunzione tra crescita economica ed occupazione è infatti l'altra grande rottura dei nostri giorni che sta cambiando il paesaggio sociale.

Dietro l'ossessionante attenzione al problema dell'occupazione si pongono anche i radicali mutamenti dei contenuti materiali, dei vissuti esistenziali e delle regolazioni istituzionali del lavoro.

E' proprio nell'economia solidale, mi sembra, che tendono a confluire tre traiettorie: l'entropia dello sviluppo (manutenzione della vita e della natura), la disoccupazione di massa e la trasformazione della biografia dell'uomo e della donna al lavoro.

Se vista in questo quadro la poliedrica realtà della economia solidale si rivela come un moto originario ed originale di risposta (forse embionale e contradditoria) alle trasformazioni di questa fine di secolo ed alla nuova configurazione che assume la questione sociale.

(...) Che su queste nuove aree di movimento e di esperienza si inserisca un intricato gioco di strumentalizzazioni è ovvio e scontato.

Come deve essere scontato che, su questo territorio di sperimentazione necessariamente ambiguo, avrà una crescente importanza la vivacità e la ricchezza del confronto politico, culturale e ideale.

Il neoliberismo tenta di strumentalizzare il volontariato in un disegno di smantellamento dello Stato sociale e per ricondurre i soggetti portatori di diritti sociali alla condizione di "bisognosi" da affidare all'altruismo e alla beneficenza privata.

Il progressimo "alla giornata", che passa sempre di striscio accanto ai grandi problemi del nostro tempo, tenta di utilizzare il terzo settore come risposta tattica di tamponamento ai problemi dell'occupazione o come intervento di anestesia sociale per la cosiddetta riforma dello stato sociale.

Ho qualche esitazione ad utilizzare il termine di derivazione anglosassone "terzo settore", perché questa definizione potrebbe in qualche modo definire una sorta di area "ghetto", una zona di rifugio di inoccupati e disoccupati.

Sotto la terminologia equivoca si può anche celare una imperdonabile incomprensione della originalità e delle potenzialità di queste emergenti tendenze economico-sociali e culturali.

(...)

Se nell'economia solidale crescono saperi critici e innovativi di giovani e ritornano in essa saggezza ed esperienza di anziani; se in essa si incontrano l'altruismo del volontariato e l'interesse alla solidarietà di chi cerca insieme un reddito e un senso della vita; se in essa filtra e penetra il bisogno personalizzato dell'utente, l'economia solidale esce allora dal rischio di una sua ghettizzazione marginale e semi-assistita, diventa un laboratorio avanzato di saperi, di attività e di sensibilità ed entra con uno statuto di legittimità e di dignità in una economia plurale, una economia del futuro nella quale il lavoro non scompare, ma si articola sempre più in percorsi di pluri-attività lungo i quali potrebbero sfumare i confini tracciati da Hannah Arendt tra lavoro, opera e attività.

Ma per avere una grande capacità di contaminarsi senza perdersi, occorre possedere tutta la forza della propria autonomia.

Essere autonomi significa, etimologicamente, essere legislatori di se stessi. (...)

Nel 1886 viene emanata nel nostro Paese una legge sulle mutue: alle società di mutuo soccorso viene concesso un riconoscimento legale con alcuni benefici fiscali e patrimoniali in cambio della accettazione di statuti e regolamenti di funzionamento stabiliti dalla legge.

Otto anni dopo, nel 1894 le società mutue vivevano difficilissime situazioni economiche ed erano strette da mille problemi.

5 566 società di mutuo soccorso su 6722 (cioè l'83%) non avevano ancora accettato il "riconoscimento" legale.

L'autonomia veniva prima dell'economia, la libertà era un bene così prezioso che non poteva essere scambiato con la sicurezza.

Questa vicenda ebbe un esito di sconfitta: ma credo che sia saggio andare a vedere anche quali sono le ragioni dei vinti. Non tutto, ma qualche cosa possiamo forse imparare.

Pino Ferraris



Contenuti UNa storia in edicola archivio comunicati a-links



Redazione: fat@inrete.it Web: uenne@ecn.org