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Da "Umanità Nova" n. 24 del 19/7/98

Sergio Romano : ex ambasciatore e opinionista tra nostalgie franchiste e revisionismo strumentale

Un opinionista tra nostalgie franchiste e revisionismo strumentale

Da qualche settimana si è sviluppato un dibattito su vari organi di stampa in seguito alle affermazioni di Sergio Romano a proposito della guerra civile spagnola e del franchismo. Il suddetto, pur non abbandonando uno stile compassato e beneducato, ha ripreso le tesi propagandistiche del franchismo presentandole come una novità assoluta e addirittura scomoda per l'opinione storica dominante. Questa, infatti, sarebbe tutta malata di schematismo antifascista e di subordinazione all'ideologia marxista : è scontato che chi si permette di criticarlo non possa essere altro che un marxista nostalgico e obsoleto.

Il Romano ha utilizzato per il suo exploit alcune paginette inserite, quasi per caso, in un libretto di memorie (Nino Isaia-Edgardo Sogno, Due fronti. La guerra di Spagna nei ricordi personali di opposti combattenti di sessant'anni fa, Firenze, Liberal, 1998, pp. 106). Con molta nonchalanche egli dichiara che la guerra civile, cominciata come un conflitto tra fascismo e antifascismo, diventò, dopo l'intervento dell'Unione Sovietica, uno scontro tra comunismo e anticomunismo. L'illustre opinionista, ospitato quasi ogni giorno sul Corriere o sulla Stampa, dimentica qualcosa che è di dominio pubblico in ambienti appena un po' informati. Il golpe dei generali era diretto essenzialmente contro un forte movimento popolare rivoluzionario, che metteva in pericolo l'assetto tradizionale e fortemente oppressivo dell'economia e della società. Latifondisti, Chiesa cattolica ed esercito volevano infatti sottomettere quel proletariato rurale e urbano, che non si accontentava di riforme promesse e non mantenute, e che stava già procedendo ad occupazioni di terre su larga scala; il blocco reazionario, inoltre, sapeva che le istituzioni repubblicane erano poca cosa e che sarebbe stato facile ridurle alla ragione in pochi giorni con un misto di minacce e di repressione. Ma sostanzialmente accadde che si opposero con la forza alla ribellione dei militari non le legittime -dal punto di vista legale-, strutture repubblicane, bensì gruppi armati di operai, di cui molti della CNT di Barcellona, Madrid e Valencia, abituati da tempo agli scontri di piazza e all'azione diretta. Questo fatto cruciale, che spiega l'inizio della guerra civile e della rivoluzione sociale scaturite nel luglio 1936, è ignorato dal beneducato e compassato analista per il quale esistono solo il comunismo, il fascismo e i rispettivi "anti". Tutto si svolge poi all'insegna del "meno peggio", per cui essendo il "peggio assoluto" personificato da Stalin, lo stesso Franco viene rivalutato e considerato addirittura un preparatore della transizione indolore alla democrazia della seconda metà degli anni Settanta. Si ignorano bellamente i tentativi di Franco di entrare in guerra con Hitler e Mussolini fino al 1941, la spietata eliminazione fisica di ogni sospetto oppositore (anche liberale, in quanto massone o alleato dei "rossi") dove entravano le truppe franchiste, le fucilazioni dal 1939 al 1945 (varie stime attendibili le fissano in 80-100.000 ; a guerra civile finita !), una dittatura oppressiva e anticulturale durata quasi quarant'anni e altre innumerevoli delizie del potere assoluto della Sentinella d'Occidente. Ancora nel 1974, mentre procedeva a grandi passi la modernizzazione economica, in Spagna si usava il vil garrote per uccidere Puig Antich, un giovane libertario condannato a morte.

A dire il vero gli anarchici spagnoli, il motore del movimento operaio presenti a milioni negli anni Trenta, non sono del tutto assenti in questa ricostruzione, ma non possiedono una propria identità, un progetto di società, una storia dignitosa : hanno un ruolo puramente strumentale. Essi compaiono solo in quanto vittime dell'apparato moscovita (cosa peraltro terribilmente vera) e servirebbero a fare da sfondo alla tesi per cui lo stalinismo in Spagna era diventato dominante nel 1937 al punto che in caso di vittoria repubblicana a sud dei Pirenei si sarebbe installata sicuramente una "democrazia popolare" sul modello dell'Europa dell'Est del secondo dopoguerra. E quindi Franco sarebbe stato un "male minore".

Un tale punto di vista è lontano da un'analisi storica appena sostenibile in quanto mette sullo stesso piano l'Europa degli anni Trenta e quella del 1946, annullando taluni dettagli come la Seconda guerra mondiale e le sue ...trascurabili conseguenze. Tra l'altro l'illustre commentatore tralascia il fatto che Stalin avesse degli oppositori in terra di Spagna in quei movimenti popolari e politici che non si rassegnarono a passare da protagonisti dei profondi cambiamenti in atto al ruolo di vittime predestinate. Ne è un esempio tangibile l'evento accaduto nel febbraio-marzo 1939. Poche settimane prima del tracollo finale, a Madrid si impose una rivolta di forze eterogenee unite dall'opposizione al governo Negrin, un socialista controllato dagli stalinisti. Fu un ufficiale repubblicano, il colonello Sigismundo Casado, a guidare tale protesta armata contro la nomina di cinque generali di stretta osservanza comunista ai vertici dell'esercito, ma ci fu la convergenza di esponenti socialisti e, soprattutto, la partecipazione determinante di forze comandate dall'anarchico Cipriano Mera, un ex operaio edile divenuto generale. In fin dei conti gli stalinisti non riuscirono a fare sempre il bello e il cattivo tempo. E' vero che ormai le Brigate Internazionali erano state ritirate (ottobre 1938) e che uno scontro politico militare all'interno del fronte repubblicano non aveva più le caratteristiche del maggio 1937, ma questo fatto dimostra la tesi che Stalin aveva abbandonato la Spagna al suo destino in quanto stava cambiando le alleanze orientandosi verso il patto con i nazisti. Tra l'altro, ciò vanifica ulteriormente l'ipotesi di una "democrazia popolare" in salsa iberica.

Al di là di queste considerazioni generali vi è da ricordare come Romano, e prima di lui gli stessi franchisti, cerchi di mettere insieme gli anarchici spagnoli, impegnati nella realizzazione di una rivoluzione sociale all'interno di una guerra antifascista, e non meglio precisati "democratici", anch'essi destinatari della repressione moscovita. In realtà basta leggere qualsiasi saggio dignitoso sulla guerra civile per rendersi conto che i "democratici" erano perfettamente schierati con i comunisti stalinisti nella distruzione delle esperienze collettiviste e delle strutture delle milizie libertarie. Quindi complici e non vittime degli agenti di Mosca !

Questo evidente errore serve a Romano, che di svarioni ne raccoglie un po' in sole sei paginette, per rafforzare la tesi (peraltro ovvia e banale) dell'antidemocraticità dello stalinismo. I conti non tornano sul terreno spagnolo perché qui i bolscevichi moscoviti andarono a braccetto con i repubblicani conservatori, borghesi e democratici. Si ricordi, per esempio, che la terra collettivizzata venne restituita ai piccoli e medi proprietari aragonesi in seguito all'intervento armato della famosa divisione stalinista del famigerato Lister nell'agosto del 1937. L'alleanza fra totalitarismo stalinista, nel ruolo di poliziotto, e capitalismo liberale e democratico fu una caratteristica delle tendenze stataliste e controrivoluzionarie nel corso dell'intera guerra civile : l'antianarchismo le univa nella difesa dei privilegi economici e delle gerarchie sociali.

D'altronde l'esperienza rivoluzionaria libertaria che interessò milioni di persone è completamente assente dai ragionamenti di Romano, evidentemente distante anni luce dal considerare degno di nota ogni sforzo di realizzare l'utopia della solidarietà popolare e del federalismo. Personalità come quelle di Camillo Berneri e di Buenaventura Durruti non hanno diritto di esistenza nell'universo "romaniano", fittamente abitato da politici di alto bordo, da supergenerali, da diplomatici tutti sorrisi e ipocrisie e da altri uomini del potere di destra e di sinistra.

Ci sarebbero delle semplici e istruttive letture da consigliare all'aristocratico osservatore-provocatore, ma resta un profondo dubbio sulla utilità di tali indicazioni. Qual è infatti la consistenza dei fondamenti storici in un ragionamento che parte esplicitamente dalla caduta dell'Unione Sovietica per rileggere il passato in una chiave anticomunista densa di schematismi e di forzature? Per portare nuove motivazioni (in realtà vecchi arnesi della propaganda franchista) al carro della legittimazione democratica della destra (post?)fascista in Italia non serve quasi a nulla una rigorosa e precisa documentazione. Probabilmente basta lanciare dei sassi dalle pagine culturali di alcuni quotidiani compiacenti, dove le opinioni dei potenti sono sacre e le polemiche politico-culturali, apparentemente gratuite, hanno scopi che vanno ben oltre il confronto fra tesi storiche con un minimo di fondatezza scientifica.

Claudio Venza



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