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Da "Umanità Nova" n. 24 del 19/7/98

Globalizzazione e autogestione

In un recente seminario tenutosi a Palermo, Riccardo Petrella, noto studioso dei problemi della globalizzazione del Gruppo di Lisbona nonché presidente dell'Associazione amici di Le Monde Diplomatique, dava un'immagine dell'economia planetaria del capitale globale integrato: la mongolfiera. Ogni giorno si movimentano nel circuito finanziario più di 1000 miliardi di dollari (risparmio la moltiplicazione per 250 giorni lavorativi e la relativa traduzione in lire italiane), a fronte, tanto per dare un esempio di dimensioni in gioco, di 6500 miliardi di dollari di scambi commerciali all'anno (record del secolo, peraltro). L'economia finanziaria virtuale ormai rappresenta circa il 97% di ogni transazione di denaro, mentre l'economia reale - vale a dire produzione e commercializzazione di beni e servizi, dalle materia prime ai manufatti, fagli oggetti di consumo (alimentari, sanitari, voluttuari, ecc.) alle prestazione di servizi (pubblici e privati) - copre il restante 3%. Nell'immagine, l'umanità è pigiata nella "cesta" della mongolfiera e deve sopravvivere, peraltro in modo iniquo (chi molto, chi poco, chi niente) con una particella infinitesimale di quanto "offre" la ricchezza materiale prodotta nel mondo, mentre l'accumulazione finanziaria - che non serve più per rifinanziare il ciclo economico reale - è questo gigantesco "pallone gonfiato" della mongolfiera, che regge precariamente la navicella, che rischia di esplodere al minimo buco, travolgendo con sé anche la "cesta" sottostante, alla mercè di instabili oscillazioni ad ogni spostamento "virtuale" del pallone.

Nel corso del dibattito, si sono delineate grosso modo due tesi, non certo originali: la prima, quella di bilanciare meglio il peso degli equilibri tra "cesta" e "pallone gonfiato", magari introducendo l'elezione non dei rappresentanti del popolo al parlamento europeo che non conta nulla, bensì quella dei governatori delle banche centrali; oppure introducendo una tassa (0.1%) su ogni transazione finanziaria in maniera da rifinanziare i sistemi di welfare in ogni stato, ridottosi ormai a elemosinare briciole. Petrella è sostenitore di una simile tassa Tobin (dal nome del premio Nobel per l'economia che l'ha proposta anni addietro), e ritiene che la società civile mondiale possa, federandosi, coalizzarsi per premere sulle autorità statali al fine di una introduzione simultanea della tassa, dando così respiro all'economia reale che finanzia salari, pensioni, spesa sociale, sanità e istruzione, attraverso la redistribuzione fiscale. A tal proposito, è già nata una ong francese che funge da pivot di una tale strategia mondiale: Attac (www.attac.org) che è in cerca di partner locali per costruire quella rete di resistenza e attacco, appunto.

L'altra strategia obiettava la difficoltà di imposizione e prelievo di una simile tassa (dove? a qual punto del ciclo virtuale della finanza globale? e chi la dovrebbe prelevare? e come prevenire la fuga di capitali?), che per giunta dovrebbe essere di pertinenza dei medesimi governi che si sono venduti al capitale globale che li garantisce sulle poltrone dorate sovvezionandone privilegi e poteri (in linea con quelli del capitale). Piuttosto che ridelegare allo stato la creazione siffatta di un ennesimo welfare (che, ricordiamolo, garantiva in occidente perché sfruttava al sud, incatenando materie prime ed energie al giogo statuale, seppure con metodi ed esiti differenziati, almeno guardando le cose da una prospettiva libertaria, e non sindacale), meglio cercare di sganciare (de-link) la "cesta" dai destini a rischio della "mongolfiera", attrezzandosi a sopra-vivere in maniera equa e solidale tendenzialmente in autonomia dalle bolle speculative. Si tratta ovviamente di un approccio paradossale, ma non meno strategico, se si pensa che intere economie extramercantili e non-monetarie si autorganizzano tra le macerie di disperazione (non solo metaforiche) delle favelas latino-americane o delle tribù africane cosiddette premoderne (pratiche comunitarie del dono).

Il rapporto pensabile tra globalizzazione e autogestione non è solo questione di scala. Anche perché sul piano della grandezza dei processi di globalizzazione è implausibile contrapporre processi più ampi, più mondiali se si potesse dire, come una superforza antagonista contro il supercapitale. Sarebbe una supersocialdemocrazia statuale che governerebbe il mondo, peggio di come già fanno malamente l'Onu, il Fondo monetario internazionale e l'Organizzazione mondiale del commercio, che almeno non sono sempre compatte al loro interno.

Ecco perché mi sembra più consono alle nostre sensibilità libertarie una prospettiva che, muovendo dalle espulsioni, dalle esclusioni, dalle selezioni coatte imposte dal neoliberismo (e congiuntamente all'allargamento degli spazi lasciati dallo snellimento dello stato che molla il sociale al terzo settore filo-statuale), si sforzi di delineare una strategia di autonomia dal capitale e dallo stato, cioè dall'economia del profitto e del denaro - anche sotto forma di salario - e dalla politica e dalla rappresentazione - anche dalla forma partito scimmiottata a sinistra.

In altri termini, scommettere non su una reintegrazione dialettica degli esclusi nel processo di neo-contrattazione postfordista, quale potrebbe definirsi la prima strategia sopra evocata, quanto a bruciare sino in fondo lo spazio residuo di integrazione nel sistema e, al contempo e senza sfasature, agire per radicare una estraneità visibile che sappia darsi i mezzi e le idee inedite per autogestire a livello territoriale una economia solidale e irrelata al capitale e una politica autogestionaria locale irrelata alle istituzioni (ossia un municipalismo libertario ma extra-istituzionale, di autogoverno e non di governo dal basso).

Del resto, già si danno spazi enormi nei processi di esclusione: tra il locale quale appendice insignificante del globale, mero bersaglio degli effetti fisiologici e perversi delle politiche neoliberiste, e il globale quale si sta configurando nei mega-conflitti tra imprese transnazionali e tra stati in corsa per un posto al sole (magari ricorrendo al "vecchio" nucleare, come India e Pakistan), si dà uno spazio detto regionale in cui c'è alta mobilità di corpi; i migranti globali non volano virtualmente, ma si spostano, vengono spostati da appositi racket, in carne e ossa, superando l'attrito, spesso mortale, con l'acqua del mare. Consideriamo, a titolo di esempio, che nel prossimo decennio si affacceranno 20-30 milioni di giovani lavoratori e lavoratrici delle già giovani società mediterranee (del sud e dell'est del bacino), i cui sistemi economici potranno assorbire a stento il 10%, mentre il restante sarà preda - sino a che vita e reddito saranno legate al lavoro nella sfera economica - del ricatto economico del capitale occidentale (e quindi emigrerà in massa, come fecero i nostri avi nelle due Americhe a cavallo tra i due ultimi secoli: altro che barriere informatiche di Schengen!) e del ricatto politico del fondamentalismo neoclericale: il progetto teocratico dell'integralismo islamico che usa la religione come il papa ai tempi delle crociate (jihad ne è l'equivalente storico).

Su questo scenario, sulle alternative politiche ideali e praticabili, sulle forme di resistenza (boicottaggio di prodotti, difesa dei cittadini dai prodotti transgenici monopolizzati da una unica impresa americana, creazione di altri mercati non dominati dal denaro e dal consumismo mercantile, commercio equo e solidale diretto e senza intermediari, tanto per fare esempi), occorrerà riflettere per innestare pratiche di solidarietà che vadano ben al di là delle usuali pratiche solidali tra affini legati da una analoga ideologia o da un comune sentire. Creare settori informali a livello economico (baratto, dono, diverso uso del tempo, per fare altri esempi) non significa scambiare tra simili, bensì costruire nuovi e diversi relazioni di fiducia nei confronti del diverso, dell'altro-da-sé, con prudenza indubbiamente, ma con voglia nuova di conoscere potenziali partners con cui avviare un dialogo progettuale a partire da ipotesi slegate dall'ideologico o da convincimenti politici precostituiti (senza peraltro rinunciarvi). Saprà il movimento libertario cogliere in se stesso le energie (anche mentali) disponibili per avviare un precorso così incerto e così necessario?

Salvo Vaccaro



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