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Da "Umanità Nova" n. 25 del 1/9/98

Kosovo
Una guerra senza fine

Duecentomila, trecentomila, forse più sono i profughi alla ricerca di una sistemazione che consenta loro di sopravvivere all'incalzare del conflitto in corso nel paese. In parte si sono rifugiati in Albania, parte nel Montenegro, altri in Serbia, altri ancora sono arrivati in Ungheria, ma il grosso è ancora nel paese a vagare nei boschi, perlopiù vecchi e bambini che, con l'assistenza delle donne, cercano di trovare una qualche via d'uscita.

Il problema più grosso si porrà se entro il 20 settembre non saranno di ritorno a casa, in tempo per la semina; quella semina che sarà in grado di assicurare loro il fabbisogno alimentare per l'anno che verrà.

Sono in maggioranza albanesi, ma non mancano i serbi ed i rom che sfuggono alla repressione delle forze di "sicurezza" serbe ed agli scontri con i combattenti dell'UCK, l'Esercito di Liberazione del Kosovo.

Polizia serba che viene sempre più affiancata, nel lavoro sporco, dalle famigerate milizie dell'estremismo nazionalista di Belgrado, impegnate nel saccheggio e nella distruzione sistematica dei villaggi albanesi nelle zone di maggiore attivismo dell'UCK.

Dal canto loro gli albanesi in armi tendono a vedere in ogni serbo , ivi residente, un nemico da eliminare sulla via della costruzione dei nuovi confini dell'Albania.

Ma la tragedia dei profughi e lo stillicidio di morti e di scontri che si susseguono paiono non interferire con l'andamento della partita in corso sui destini del Kosovo.

Il continuo alternarsi di minacce di intervento militare NATO evidenzia una certa difficoltà ad omogeneizzare i vari interessi in gioco. E se è ben vero che sono in corso delle esercitazioni militari in Albania, a due passi dal confine con il Kosovo, da parte di 1700 soldati dei paesi della NATO (ben 500 sono italiani) e dei partner dell'Europa orientale, compreso un battaglione di parà russi, questo non vuol necessariamente significare che si sia all'indomani dell'intervento nel Kosovo.

Gli americani si dimostrano come al solito più propensi all'azione di forza, ma devono misurarsi con gli interessi russi, tradizionalmente sensibili nei confronti dei serbi. I francesi, dal canto loro, si fanno forza della posizione russa per non prendere "posizione". I tedeschi, dopo aver "conquistato" Slovenia e Croazia, propendono per una strategia di più lungo respiro. E gli italiani, con un peso specifico sicuramente inferiore, cercano di rosicchiare posizioni a destra e manca.

Quello che è certo è che il regime di Milosevic è d'intralcio ai tentativi di sistemazione dell'area e, poiché non interessa a nessuno (se non parzialmente ai russi) diventa legittimo operare contro di esso in un modo impensabile per altri paesi europei e comunque amici.

La pelosa strumentalizzazione in atto della giusta richiesta di autonomia proveniente dalla maggioranza della popolazione di etnia albanese residente nel Kosovo non si registra infatti né nei confronti dei baschi, né dei corsi e dei bretoni, tantomeno degli irlandesi del nord. Per non parlare poi dei curdi, dei palestinesi, di Timor-est, delle etnie indigene di Messico e Brasile e di tante altre situazioni simili.

Se il principio di non interferenza negli affari interni di un paese è valido solo quando conviene, ciò significa, in termini chiari e netti, che i rapporti tra gli stati sono regolati solo da rapporti di forza e che il diritto internazionale - di cui si è fatto un gran parlare in occasione del costituendo Tribunale Internazionale - è semplicemente una finzione per tranquillizzare le anime belle. Almeno, nel mondo antico, quando si parlava di "pax romana" era tutto molto più chiaro: era la pace del vincitore.

Quando la NATO sosteneva i croati nella conquista della Krajna (peraltro già ceduta a tavolino da Milosevic) nessuno metteva in luce il fatto che si trattava di una regione abitata in prevalenza da serbi sia pure all'interno dei confini amministrativi della Croazia. In questo quadro le aspirazioni dei serbi non vennero neppure prese in considerazione poiché si trattava di dare forza alla Croazia in prima battuta e di assicurare, in seconda gli interessi tedeschi sulla via del Medio Oriente.

Ironia della sorte i serbi della Krajna vennero poi trasferiti nel Kosovo dal quale gli albanesi, in base allo stesso principio di maggioranza che a loro fu negato, li vorrebbe di fatto allontanare.

Così la volontà politica del nazionalismo serbo di annullare nel 1989 le forme di autonomia politica ed amministrativa del Kosovo, conquistate dagli albanesi con la lotta armata antifascista, come prova di forza nei confronti degli altri nazionalismi latenti o meno nel territorio della vecchia Jugoslavia (dando così il via alla disintegrazione della Repubblica Federale) è stata utilizzata per mettere il regime alla corda .

Solo che il gioco è andato un po' troppo in là per le stesse intenzioni dei promotori.

Dopo aver armato e favorito di fatto l'UCK, ora le potenze NATO non vogliono spingersi troppo oltre sulla strada dell'indipendenza del Kosovo.

La Macedonia, base americana, teme infatti i contraccolpi che l'indipendenza del Kosovo potrebbe avere per la forte minoranza albanese presente nei suoi confini e non caso si è dichiarata contraria all'intervento NATO. Il Montenegro intende defilarsi dall'abbraccio serbo e lo scoppio di una guerra aperta nell'area lo metterebbe in grande difficoltà.

L'Ungheria ha già dichiarato che non parteciperà ad alcuna iniziativa militare che vedrebbe contrapposti i suoi soldati agli ungheresi della Vojvodina reclutati sotto le bandiere serbe.

L'Albania, che dovrebbe essere la più interessata, è di fatto spaccata in due tra il Sud del presidente Nano che è più preoccupato di consolidare il suo traballante potere ed i suoi affari da non volere nuove ondate di profughi, ed il Nord dell'ex-presidente Berisha che invece soffia sul fuoco della lotta armata per garantirsi nuovi spazi di sopravvivenza.

Per finire l'UCK non chiede interventi militari, che gli toglierebbero l'iniziativa, ma solo bombardamenti sulle basi serbe.

Sullo sfondo l'acuirsi della tensione tra Grecia e Turchia ed il risveglio musulmano in Europa, sponsorizzato dagli iraniani ed amplificato dal regime bosniaco.

Tutti questi fatti potrebbero spiegare il perché si sia consentito a Milosevic di ridimensionare di fatto l'UCK che stava dimostrando di essere un punto di riferimento in crescita per gli albanesi, dandogli il via libera per il massacro dei civili. E perché sia aumentata la spinta per una ripresa delle trattative tra il potere centrale e gli esponenti albanesi egemonizzati dal movimento nonviolento di Rugova, cui il ridimensionamento dell'UCK non può essere che gradito.

I serbi, intanto, mettono le mani avanti e propongono la costituzione del Kosovo in provincia autonoma per evitare che si arrivi alla formalizzazione del territorio in Stato indipendente nell'ambito della Federazione Jugoslavia al pari di Serbia e Montenegro, obiettivo perseguito da Rugova ed i suoi. Ma questo sarebbe un passo sulla via della secessione. Secessione che la Serbia non intende registrare in considerazione dei vincoli storici, culturali e religiosi con la regione e dell'importanza delle vie di comunicazione, fondamentali per la sua economia.

Gli apprendisti stregoni che diedero il beneplacito alla spartizione jugoslava paiono incapaci di trovare soluzioni politiche in grado di porre un freno al conflitto balcanico. Solo i popoli se avranno la capacità di liberarsi dal giogo nazionalista possono prendere in mano il bandolo della matassa e ritrovare il filo di una convivenza pacifica che riporti il conflitto nell'unica dimensione liberatrice: quello sociale.

E su questo versante che occorre impegnarsi per dare senso e dimensione alle pur necessarie azioni di solidarietà concreta alle vittime di questa guerra senza fine.

Massimo Varengo



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