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Da "Umanità Nova" n. 25 del 1/9/98
Commentando la recente intesa politico-economica tra la Libia e il governo Prodi, Gheddafi ha parlato senza mezzi termini di "un'alleanza progressista, rivoluzionaria..."; in realtà la politica neocoloniale italiana è sempre stata tale che gli affari reciproci non sono venuti mai meno, neppure durante i periodi di maggiore tensione internazionale e il perdurante embargo. L'elenco dei rispettivi interessi economici è estremamente esteso tanto che è praticamente impossibile darne un quadro esauriente, ma comunque qualche cifra e qualche nome si può senz'altro fornire giusto per darne un'idea e fare quindi alcune considerazioni. Fin dagli anni `70 i rapporti tra Libia e Italia sono stati particolarmente intensi; quando infatti il Colonnello decise la nazionalizzazione di tutte le compagnie petrolifere ebbe comunque un occhio di riguardo per gli ex-colonialisti lasciando all'ENI una partecipazione paritetica del 50%, mentre il capitale italiano trovava in Libia diversificate possibilità d'investimento, costruendo raffinerie, strade, industrie e vendendo armamenti. Tale collaborazione fu onorata dai servizi segreti italiani (il tristemente noto SID) che, data la loro esperienza, sventarono un complotto ai danni del leader libico o comunque così fecero credere. Dal `76 fino all'86 -anno della crisi tra Libia e USA che vide il lancio-farsa di due missili Scud contro Lampedusa- il capitale libico fu co-proprietario della Fiat, con ben due posti nel consiglio d'amministrazione della nota fabbrica torinese, sotto l'egida governativa democristiana e socialista. Oggi la rete di interessi appare ancor più sviluppata. L'Italia è il primo partner commerciale della Libia; innanzitutto c'è ancora di mezzo il petrolio: è libico un terzo del greggio importato nel nostro paese (per 6 mila miliardi di lire) e L'Eni è il maggior produttore straniero con 230 mila barili al giorno (16% dell'intera produzione libica), mentre si prepara a sfruttare un nuovo pozzo nel bacino di Murzuk, ma la cooperazione riguarda l'intero settore energetico (gas, energia solare ed elettrica) ed è lanciatissima in quello delle Telecomunicazioni. Oltre all'Eni, hanno più che rilevanti interessi in tali settori Pirelli, Impregilo, Enel, Iveco, Snam Progetti e Saipem; la Nuovo Castoro e la Soilmec sono invece tra le principali ditte che copartecipano alla costruzione di un grande lago artificiale nel deserto libico. Nel settore commerciale sono invece le italiche Piccole e Medie Imprese a sfruttare il mercato libico andando incontro alla domanda riguardante prodotti alimentari, meccanici, tessili, nonchè calzature, abbigliamento e persino mobili. Dall'altra parte il capitale libico (investimenti previsti in Italia per il `98: 500 milioni di dollari) è dentro Banca di Roma e ha già comprato certificati di deposito per circa 5 mila miliardi di lire in altri importanti istituti (Monte dei Paschi, Credit, San Paolo di Torino, Comit); mentre progetta investimenti su Telecom, Parmalat, Mediaset, Standa. Da tempo inoltre -anche se la cosa non è mai stata resa di pubblico dominio- la Libia è azionista dell'Eni con l'1,5%, percentuale importantissima in sé in quanto garantisce la salvaguardia dei reciproci profitti perchè comunque unisce materialmente produttore e consumatore. Notevolissime anche le proprietà o coproprietà libiche in Italia nei più diversi comparti (due soli esempi: la catena alberghiera Hermitage sull'Adriatico e la tipografia Editar di Cagliari). Ma se questo panorama di allegri e reciproci buoni affari ha, alla luce del nuovo accordo bilaterale, ispirato l'ottimismo dei commentatori finanziari e ha catturato l'attenzione dei giornali solo per le clausole riguardanti le storiche responsabilità italiane (bonifica dei campi minati, deportati libici dispersi, opere d'arte trafugate, etc.), scarsa attenzione è stata rivolta alle possibili implicazioni politiche internazionali. E' stato osservato che, assieme ai nuovi rapporti con l'Iran, il recente accordo italo-libico mette il nostro paese al primo posto tra le nazioni occidentali che hanno rapporti con Stati invisi al Congresso USA e sottoposti dall'ONU a sanzioni "antiterrorismo". Se si pensa poi che ai tempi dei bombardamenti USA su Tripoli (e ancor prima in occasione della strage di Ustica) ci fu chi sottolineò come l'aggressione americana sembrava mirare più a metter fuori mercato il petrolio libico e costringere gli acquirenti europei a dipendere da quello "yankee" piuttosto che a colpire il governo rivoluzionario della Jamahiria, c'è da chiedersi se Washington rimarrà a guardare, tanto più che non ha mai smesso di accusare la Libia di fabbricare armi chimiche e comprare missili. Inoltre non vanno dimenticati sia il ruolo anti-integralista islamico giocato da Gheddafi in contrapposizione all'Iran, sia il progetto politico-militare libico di dar vita ad un'alleanza tra i paesi del Maghreb che certo destabilizzerebbe i delicati equilibri esistenti nel Mediterraneo. Di certo, comunque, è poco rassicurante una pace firmata col petrolio. Kas.
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