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Da "Umanità Nova" n. 26 del 13/9/98

Il '68 senza Lenin

Ancora un libro sul '68 (un altro?!?) con l'intenzione di spiegare cosa effettivamente è stato quel movimento radicale

che in pieno benessere sociale ed economico ha cercato di mettere in pratica l'ultima teoria critica di contestazione del modello

capitalista, intendendo per "modello" i valori culturali che in tutti i campi della vita hanno impresso il loro marchio autoritario,

gerarchico e repressivo.

Ma più che l'ennesimo libro su quel periodo, "Il'68 senza Lenin" è una raccolta di testi e documenti dell'epoca che

spaziano da Berkeley a Berlino, da Strasburgo a Torino, da Parigi fino allo sperduto paesino toscano di Barbiana. A riunirli è

l'introduzione di Goffredo Fofi (curatore della collana "Piccola Biblioteca Morale", che vede fra i suoi autori pubblicati anche

Berneri e Malatesta) che avanza la tesi - peraltro già nota e dibattuta - del tradimento da parte delle forze e del gruppi politici

dello spirito libertario del movimento studentesco. Da qui il titolo dell'opera.

Già nel recensire il libro di Giachetti (vedi U.N. n 17) avevamo osservato come l'indagine storiografica sugli anni della

contestazione si dibatta sull'asfittica questione del ritenere o meno funesto il rapporto che si é avuto fra il movimento spontaneo

del '68 e le diverse organizzazioni politiche della sinistra e della sua ala estrema, cadendo nel ripetuto giudizio morale fra i buoni

(il movimento degli studenti) e i cattivi (i militanti tosti e duri dei gruppi tardo-leninisti). Anche Fofi non si risparmia - e non ci

risparmia - in questa ginnastica teorica, argomentando che il '68 senza Lenin fu poca cosa in termini di tempo, ma grande cosa

in termini di idee; mentre ciò che venne dopo la sua crisi non fu altro che il tentativo di imputare dei padri putativi (Mao, Lenin,

Togliatti) a chi di padri di tal fatta non ne aveva voluto sapere.

A tal prova - sostiene Fofi - è sufficiente rileggere i testi teorici del periodo, volti essenzialmente a combattere

l'autoritarismo delle istituzioni (l'università in primis, ma anche la famiglia, la politica, la cultura[Sigma]) e tesi ad individuare nuove

forme sociali di partecipazione ed impegno alla vita pubblica in cui l'individuo ne é figura centrale ed indissolubile. Niente da

eccepire se però si sottolinea anche che un simile afflato libertario non ebbe possibilità di espressione piena e coerente non tanto

perché i "cattivi" pretesero fin da subito di porre un cappello politico (sarebbe meglio dire museruola) al movimento

studentesco, ma perché i cosiddetti "buoni" furono incapaci di darsi forme organizzative effettivamente libertarie ed in grado di

smascherare il personale politico dei partiti e dei gruppuscoli calatosi nelle assemblee generali al pari di avvoltoi sulla preda.

Perché è pur vero che il famoso documento di Strasburgo (Della miseria nell'ambiente studentesco), o il Manifesto di

Port Huron, o ancora il saggio di Guido Viale (Contro l'Università) e dei fratelli Cohn-Bendit (L,estremismo rimedio alla

malattia senile del comunismo), sono un,attenta e per certi versi lucida analisi della società e della crisi dei valori di cui essa è il

prodotto; pure soffrono in gran parte - già loro stessi - di riferimenti teorici ed organizzativi che l'esperienza pratica del

movimento proletario rivoluzionario avrebbe sicuramente offerto loro, consentendogli di non ricadere nell'atavico problema

della conquista del potere. Infatti se il movimento del'68 è immediatamente caduto nelle fauci dei "rivoluzionari di professione"

è perché non ha saputo andare oltre ad una mera critica della politica che, ammantata dal cerimonioso "siamo tutti delegati" e

del messianico "tutto il potere all'assemblea", si è esaurita allorquando la lotta all'interno delle università fisiologicamente si

riversava sulla società intera (ma soprattutto sul mondo produttivo) e aveva bisogno strutturalmente di delegati il cui mandato

da parte della base non fosse fittizio, dettato dal carisma nel tenere con la parola e la bella presenza nelle assemblee generali.

Certo, Fofi ha ragione: "guai a giudicare il '68 da coloro che nel '68 hanno trovato il primo trampolino verso il

successo.(Parleranno molto, nel '98, e sarà bene non prenderli troppo sul serio: nuova classe dirigente, colonne della società,

come può conciliarsi il loro oggi con il loro ieri?)". Ma mi domando: e gli altri, quelli che non si chiamano Capanna, Deaglio,

Liguori, Sofri, Boato, Manconi, Santoro, Ferrara, che fine han fatto? Forse che l'assenza di riflettori è di per sé garanzia di

purezza, integrità, coerenza? Perché non si sta parlando di alcune centinaia di persona, ma di migliaia, migliaia e migliaia[Sigma]

Forse, noi anarchici, saremo pochi, e anche nel '68 libertario non siamo certo stati i più. Ma ci siamo, ieri come oggi.

Sarà perché non abbiamo mai creduto nel '68?

AA.VV., Il '68 senza Lenin. Ovvero la politica ridefinita, Edizioni e/o, Roma 1998, pp. 187, Lire 10.000.

Jules Elysard.



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