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Da "Umanità Nova" n. 28 del 27/9/98

Economia
La crescita non abita più qui

I crolli di borsa che a catena hanno colpito i mercati mondiali dopo l'innesco della crisi russa hanno finito per dividere il campo degli economisti. Tralasciando i non pochi catastrofisti che vedono l'attuale situazione come la dimostrazione più evidente di una profonda crisi globale del capitalismo di portata epocale, restano due filoni di pensiero: 1) chi interpreta l'attuale fase di turbolenza come l'inizio di un semplice rallentamento dell'economia mondiale; 2) chi pensa invece si tratti dell'inizio di una depressione di portata più ampia e duratura, capace di segnare una svolta in qualche modo paragonabile alla crisi dei primi anni `70, ma con caratteri molto diversi e per certi versi opposti.

I sostenitori della seconda ipotesi interpretano in senso pessimistico la recente audizione di Alan Greenspan al Congresso, soprattutto nel passaggio in cui il Governatore della Fed ha parlato per la prima volta di "forze deflazioniste che stanno venendo verso di noi", nonché di "segnali di erosione dell'economia Usa". A questo proposito si può ricordare che da febbraio ad oggi l'economia Usa ha perso 150.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero, i profitti delle imprese sono a crescita zero per la prima volta dal 1994 e che il Dow Jones ha perso circa il 20% rispetto ai massimi di luglio e lo Standar & Poor almeno il 10%. Alcune banche hanno dimezzato il proprio valore borsistico nell'arco di poche settimane contabilizzando il loro credito verso la Russia a cifre puramente simboliche. Se questo scenario venisse confermato i prezzi comincerebbero a scendere e i consumi a calare, con inevitabili conseguenze sui profitti delle imprese, i livelli produttivi e i saldi occupazionali. I caratteri della crisi sarebbero alquanto diversi dagli anni `70: non inflazione ma deflazione, non rincaro delle materie prime ma crollo dei loro prezzi, non shock dal lato della domanda, ma shock dal lato dell'offerta. Non eccesso di richieste salariali, ma troppa forza lavoro disponibile sul mercato e conseguente calo del salario aggregato. Uno scenario da anni `30...

I sostenitori della prima ipotesi utilizzano invece le stesse parole di Greenspan per suffragare delle opinioni quasi opposte. Secondo loro il governatore della Fed ha volutamente mandato dei segnali negativi alla comunità finanziaria per moderarne gli entusiasmi speculativi, convinto com'è che le quotazioni avessero raggiunto nei mesi scorsi dei livelli iperbolici assolutamente ingiustificati. Lo sgonfiarsi di una bolla speculativa è di per sé salutare, ma va gestito con una certa delicatezza per evitare che l'enorme massa di ricchezza virtuale andata distrutta nel crack incida in maniera troppo pesante sull'economia reale. Ad esempio una caduta del 20% dei corsi di borsa (in linea con i precedenti esempi storici di correzione della borsa Usa) riduce del 10% la ricchezza disponibile degli americani, ma colpisce in realtà in maniera massiccia soltanto gli strati superiori della società, in modo tale da non avere quasi alcun effetto sui consumi di massa. Si calcola che questa riduzione dei consumi sia quantificabile nello 0,5 del Pil, compensabile eventualmente con la riduzione di un punto dei tassi d'interesse. Tuttavia questa riduzione non si rende neanche necessaria, perché l'effetto-annuncio dell'audizione di Greenspan al Congresso ha già di per sé contribuito a orientare il comportamento degli operatori economici, i tassi sono scesi da sé e oggi tutti sanno che le autorità monetarie americane sono pronte ad immettere nuova liquidità nel sistema se lo riterranno necessario.

Una situazione in qualche modo analoga si verifica a livello internazionale, per il peso economico e politico che gli Usa continuano ad avere nell'economia mondiale. E' noto che il FMI ha speso nell'esercizio chiuso ad aprile 1998 25,6 miliardi di dollari per prestiti a paesi in crisi, circa 4 volte quanto erogato nel precedente esercizio. E' altrettanto noto che le riserve disponibili per nuovi prestiti sono tra i 5 e i 9 miliardi di dollari, a mala pena sufficienti per sostenere a breve il governo russo. La proposta dell'amministrazione Clinton di rifinanziare il Fondo per altri 18 miliardi di dollari è quindi di esiziale importanza per la stabilità finanziaria internazionale e tutto lascia prevedere che, nonostante le macchie del presidente sui vestiti Lewinsky e le sue non improbabili dimissioni, il Congresso finisca per approvare il progetto su pressione di Greenspan e Rubin, il potente Ministro del Tesoro.

Per quanto riguarda il resto del mondo, la crisi ha evidenziato alcuni fatti che si conoscevano già:

1) il Giappone continua a monitorare il proprio inarrestabile declino economico senza alcun segnale di inversione di rotta, con buona parte del sistema bancario decotto e le multinazionali dell'export che vedono scendere le proprie quote nel mercato mondiale nonostante la svalutazione dello yen;

2) la tenuta dell'area euro, che si dimostra "un'isola di stabilità" nel marasma generale, capace di fronteggiare con calma le tempeste (mentre Norvegia, Svezia e Grecia sono costrette a svalutare), e capace persino di rafforzarsi sul dollaro, ponendo tutte le necessarie premesse a candidarsi come area egemone nell'economia mondiale del futuro;

3) il necessario ritorno al passato per l'economia russa, che inizia il suo ennesimo tentativo di agganciarsi all'Occidente con la nazionalizzazione delle banche, un forte dirigismo statale, la chiamata a posizioni di comando di ex-responsabili dei piani quinquennali e la rassicurante presenza dei voti "comunisti" nella maggioranza di governo;

4) il grande caos che da oltre un anno flagella i mercati borsistici e valutari sta cominciando a produrre i suoi effetti teorici, oltre che pratici: da più parti, compreso l'inossidabile FMI, si ritorna a pensare a qualche forma di controllo sui movimenti di capitale, a partire dall'esempio confortante della Malesia che ha provvisoriamente introdotto controlli sui cambi per difendere la sua valuta.

Insomma, dalle crisi tutti imparano qualcosa. I partiti e i sindacati ufficiali del movimento operaio sembrano voler imparare soltanto nuove ricette di patto sociale, prima di ributtarsi a comprare in borsa.

Sappiamo che la realtà non è così semplice: perlomeno non per quei 5/6 miliardi di persone costrette a vivere al di fuori delle cittadelle protette e opulente del Nord del mondo. L'approfondirsi della contraddizione di classe interna ai paesi sviluppati, l'acuirsi della contraddizione nord-sud per i paesi "emergenti" (che qualcuno più giustamente chiama "immergenti") sono il prodotto inevitabile dello "sviluppo", cioè della tendenza delle corporations che governano il mondo ad andarsi a cercare la forza lavoro più flessibile nel sistema-paese meno costoso. La soluzione non sta in un nuovo terzo mondismo alla Latouche, ma nello sviluppo della critica radicale a livello internazionale rispetto all'intero modello economico del capitalismo globalizzato.

Renato Strumia



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