Da "Umanità Nova" n. 30 del 11/10/98
Semira Adamu era una ragazza nigeriana di vent'anni, assassinata dalla polizia durante l'ennesimo tentativo di espulsione dal Belgio, ove aveva invano richiesto asilo politico, per sfuggire ad un matrimonio forzato nel suo paese. Sullo scorso numero di UN abbiamo pubblicato alcuni documenti ed articoli sulla sua storia e sull'Europa dei campi di concentramento. Quella che segue è un'intervista posta in rete il 2 ottobre e pubblicata in francese dalla Luc Pire.
La conversazione con Sémira è lenta e difficile, ritmata da lunghi silenzi, mezze parole e sottointesi. Ad alcune domande, Sémira risponde solo con si o no, le domande devono essere molto precise e dettagliate. Col ripetersi dei si e dei no, si finisce per capire che Sémira è sotto sorveglianza e ha paura. Il telefono si trova nel corridoio, vicino alla gabbia di vetro in cui stanno i suoi guardiani, i quali la tengono sotto occhio. Questa testimonianza è costituita da diversi pezzi di lettere e di appelli.
"La vita nel centro è molto noiosa. Siamo in pochi adesso nella mia sezione e la maggior parte dei carcerati non parlano inglese. Ci sono persone dello Zaire, del Kosovo, dello Sri Lanka, dell'Afganistan... Qui è veramente orribile. Ci svegliamo la mattina e guardiamo la TV fino alla sera. Ho potuto ottenere qualche libro, me li ha portati Lise Thiry (Ndt - Questa persona è virologa ed ex senatrice e sul modello della lotta dei sans papiers in Francia, si è impegnata a seguire particolarmente il caso di Sémira, un tipo di "madrina"). Mi sento molto sola. La maggior parte della gente che conoscevo è stata trasferita in altri centri. Non so neanche dove si trovano. Suppongo che provino a isolarci, a rompere i contatti che abbiamo potuto stabilire con gli altri.
Dopo l'evasione, tutto il personale del centro ce l'ha con me. Mi sorvegliano sempre, ho sempre qualcuno dietro di me. Per una settimana, dopo il 21 luglio, non abbiamo più avuto il diritto di telefonare. Prima si poteva chiamare dalle 9.00 alle 22.00, adesso solo dalle 15.00 alle 18.00 e sono le ore in cui si paga di più... In ogni modo, le regole di vita cambiano ogni giorno. Un giorno è possibile fare un certo tipo di cose, l'indomani la stessa cosa è vietata...
Non possiamo ricevere visite. Ufficialmente, le visite sono autorizzate, ma non concedono il permesso, o semplicemente non rispondono. Lise tHiery non è mai riuscita a incontrarmi. Lei è arrivata qui, ha consegnato per me, ai guardiani, libri e vestiti. Non ho potuto vederla.
C'è gente delle Ong che viene, però molto raramente. C'è ne uno che è venuto ad incontrarmi due giorni fa ma non mi ha parlato molto. In ogni modo, si può dire di tutto, niente cambia. Hanno provato ad espellermi quattro volte. La prima volta, non hanno usato la forza. Mi hanno portata all'aeroporto. Li mi hanno chiesto se accettavo l'espulsione. Ho detto di no e mi hanno riportata nel centro. La seconda volta, si è svolta in modo identico, ma mi hanno assicurato che la volta successiva, sarebbero stati molto più duri. La terza volta, mi hanno preparata per andare all'aeroporto e all'ultimo momento non siamo partiti. Mi hanno detto che avevano dimenticato di prenotare un posto sul volo. Suppongo che avessero paura delle manifestazioni di solidarietà in mio favore ... La quarta volta è stato terribile. Sono stata svegliata alle 6.30 da una del centro chi mi ha annunciato che dovevo tornare nel mio paese e che avevo 20 minuti per preparare le mie valige. Non ho avuto neanche il tempo di fare la doccia e ho dimenticato delle cose mie nella precipitazione della partenza. Finalmente ero pronta, mi hanno scortata fino alla porta di uscita e mi hanno fatto salire nel furgone per raggiungere l'aeroporto. All'arrivo, mi hanno legato braccia e gambe a due livelli diversi. Poi mi hanno chiusa in una cella di isolamento, ci sono rimasta dalle 7.00 alle 10.30. Sono venuti a riprendermi, mi hanno portata verso l'aereo e alle 11.15 mi hanno fatto salire. Una volta dentro, mi sono messa a urlare e a piangere. Subito otto uomini mi hanno circondata: due guardiani della Sabena e sei poliziotti. I due guardiani della Sabena hanno usato la forza: facevano pressione sul mio corpo e uno dei due mi ha applicato un cuscino sul viso. Per poco mi soffocava. Questi due guardi dovevano scortarmi fino a Lomé. Poi i passeggeri sono intervenuti e hanno detto che volevano lasciare l'aereo se non fossi stata liberata. Uno di loro ha insistito anche perché mi fossero date le mie valigie. C'è stata una rissa nell'aereo e hanno dovuto portarmi via: quando mi sono ritrovata di nuovo sul furgone, ho visto che si portavano dietro un passeggero. Era quello che mi aveva particolarmente difesa nell'aereo. L'hanno portato sul furgone con me. Mi ha detto che voleva aiutarmi, che dovevo tornare nell'aereo, che mi avrebbe aiutato per i documenti e che mi avrebbe pagato il biglietto affinché potessi ritornare qui. Ho rifiutato e gli ho detto che non sarei andata da nessuna parte. Così, mi hanno riportata nel centro e mi hanno rinchiusa in una cella d'isolamento. Ci sono rimasta dalle 12.00 alle 16.00. Ero in cella quando hanno portato le quattro ragazze che avevano provato ad evadere: Precious, Bonsu Aqua, Cynthia e Antila. Dovevamo tutte rimanere nella stessa cella, una piccolissima stanza con solo un letto e una toilette. Dovevamo chiamarli per tirare l'acqua perché si trova fuori della stanza. Quando sono uscita dalla cella d'isolamento mi hanno portata in un'altra sezione perché la nostra aveva subito danni durante l'evasione. Adesso sono al primo piano. La "vita" nel centro ha ripreso il suo corso, con un notevole rafforzamento della sicurezza; come all'aeroporto, dove alcuni sarebbero anche capaci di uccidere...
Non so quando proveranno di nuovo a espellermi. Non ce lo dicono più prima. Arrivano, ci svegliano solo qualche minuto prima di portarci via. Però noi lo sentiamo quando un'espulsione sta per essere organizzata.. Lo capiamo, e ci sentiamo male, molto infelici. In questi momenti, sentiamo veramente che siamo prigionieri... Fra di noi, parliamo del centro, della detenzione, della nostra situazione. Quando uno di noi torna dall'aeroporto dopo essere riuscito a evitare l'espulsione, parliamo, proviamo a trovare una soluzione ai nostri problemi. Proviamo ad autoaiutarci. C'è una solidarietà fra i detenuti. Per il momento non è possibile pensare a ribellarci... Le relazioni con il personale del centro sono più o meno corrette. Subito dopo l'evasione, erano molto tese, ma adesso, si sta un po' meglio. Non parlano mai di quello che succede fuori, delle azioni di solidarietà per impedire le espulsioni. Fanno come si non esistessero, ma noi sappiamo che questa solidarietà è un bel problema per loro. Non so quando verranno di nuovo a prendermi. La vita è molto difficile per me... non so..." (intervista pubblicata il 2 ottobre '98 dalla Casa Editrice Luc Pire)
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