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Da "Umanità Nova" n. 32 del 25/10/98
Martedì 13 ottobre Giovanni Paolo II ha telefonato in diretta a Rai1
durante lo speciale di "Porta a porta" sul ventennale del pontificato,
suscitando un impeto di "felicità pura" nel conduttore e, supponiamo,
qualcosa di analogo nella cittadinanza tutta. Nel baraccone multi-mediatico
messo su dall'abile Vespa, tra collegamenti dalla Germania e dagli Stati Uniti,
con il solito intervento del "pentito" Alì Agca, non poteva ovviamente
mancare l'apparizione del protagonista: troppo efficace perché fosse
trascurata dalle quasi impersonali meccaniche dello spettacolo televisivo. In
un certo senso si tratta del culmine della carriera di GPII, vero papa
dell'età di Internet, sponsor di un'istruzione pastorale sull'uso
"corretto" delle comunicazioni (la Aetatis Novae del 1992). Nel
contempo, è la più significativa epifania della contraddizione
centrale delle sue attività: un papa antimoderno per definizione che
costruisce la sua immagine sulle più scaltre tecniche della
comunicazione "moderna".
Nutro sentimenti ambivalenti nei confronti di "sua santità" - secondo la
balbettante espressione del finto-sorpreso Vespa. Ho sempre provato avversione
per gli anticlericali di maniera, per gli atei di riporto, per gli odiatori
professionisti della religiosità. Tra i libertari si tratta spesso di un
partito preso, che non di rado tradisce l'accettazione acritica di una
tradizione positivista morta e sepolta, fondata su una distinzione ottocentesca
tra scienza e fede, priva ormai anche dei fondamenti filosofici. Già
molti anni fa Camillo Berneri se la prendeva con l'"anticlericalismo
grossolano" sempre pronto a impegnarsi "senza una prova, senza un serio
indizio, con la frenesia di voler per forza colpevole il nemico": secondo il
nostro era necessario "uscire dall'angusta visuale classista che consiste
nell'accanirsi sul borghese, sul militare, sul prete, ecc., dimenticando
l'uomo". Insomma, mi piacerebbe passare per un sofisticato e tollerante
agnostico, capace di apprezzare le ragioni dell'avversario. Ma con l'attuale
vescovo di Roma mi viene difficile. È problematico essere tollerante e
comprensivo con chi auspica uno stato di polizia gestito dal clero e progetta
di privare i non cattolici non solo delle libertà civili conquistate
negli ultimi decenni, ma anche della libertà religiosa e di pensiero.
D'altro canto, lo sforzo di questo papa è eroico: al contrario dei suoi
due predecessori che avevano cercato entrambi di venire a patti con la
modernità, Giovanni XXIII con la revisione dei capisaldi della dottrina
della chiesa, Paolo Vi con una politica di difesa degli spazi presidiati, il
papa polacco ha preso la modernità di petto.
Tra la sua immagine pubblica e le interpretazioni dottrinali del suo magistero,
che decidono di fatto della politica della chiesa, c'è un certo
scollamento. Non è gran cosa: i pronunciamenti suoi e dei suoi accoliti
contro l'aborto, il divorzio, il riconoscimento dell'eguaglianza delle famiglie
fondate su un'ethos diverso da quello cattolico, la promiscuità
sessaule, sino alla condanna più significativa di tutte, quella dei
cellulari, hanno chiarito che GPII resta pervicacemente fedele alla tradizione.
Nel contempo, da questo sciatore e viaggiatore emana una sensibilità
up to date, che sembra proprio farne il primo papa yuppie. Il punto
importante è però un altro: la monarchia di Woytila si serve di
stili discorsivi, linguaggi e tecniche nuove soprattutto per riaffermare, nella
tipica obliquità dei documenti ecclesiastici (letti da pochi), gli
usuali ideali egemonici. La capacità del Vaticano - maestro da sempre in
questo campo - sta nel valorizzare le "novità" superficiali di tali
documenti.
Vediamo alcuni casi recenti. Della Ut unum sint (1995) i media
sottolineano la "nuova" posizione papale nei confronti dell'ecumenismo,
sbrodolando sulle "aperture" - di vaghezza e banalità impressionanti -
dei sei settimi del testo. Sull'ultima parte si soffermano in pochi. Qui, in
nove punti radunati sotto il paragrafo Il mistero d'unità del vescovo
di Roma, si riafferma il "primato" dello stesso in materia di "vigilanza
sulla trasmissione della parola" e sulla "celebrazione sacramentale e
liturgica", affermando persino che "egli può [...] dichiarare ex
cathedra che una dottrina appartiene al deposito della fede": infine,
"quando le circostanze lo esigono, egli parla a nome di tutti i pastori in
comunione con lui". Traduzione: le confessioni con cui si è instaurato
il cosiddetto "dialogo" devono accettare la tradizionale supremazia
della chiesa cattolica. La Mulieris Dignitatem (1988) , il
pronunciamento "femminista" di Roma, è analogamente ambigua. È
vero che alle donne si concede finalmente una loro "dignità", che
è però inquadrata nell'usuale versione cattolica del tema. I
brani che descrivono gli ideali loro riservati - la maternità e la
verginità - sono irresistibilmente comici. Altri sembrano invece
rivoluzionari: "La donna non può ritrovare se stessa se non donando
amore agli altri". Non si tratta però, come potrebbero pensare i
maligni, della giustificazione delle sex workers. Qui per "amore" si
intende forma universalistica delle relazioni umane: ancora, appunto, la madre
e la suora. La Centesimus Annus (1991) è invece ricordata per
l'accettazione del libero mercato e della democrazia. Ma la strategia reale
è un'altra. L'idea di mercato è accettabile soprattutto nella
sfera economica della produzione (si riconosce infatti il ruolo della "giusta
funzione del profitto"), ma non in quella del consumo, a meno che non sia
correlata "all'immagine integrale dell'uomo": infatti, accettando pienamente il
principio della sovranità del consumatore, "si possono creare abitudini
di consumi e stili di vita oggettivamente illeciti e speso dannosi" (droga e
porno, per esempio). In quanto alla democrazia, essa è accettabile solo
"sulla base di una retta concezione della persona umana", tanto più che,
"se non esiste nessuna verità ultima che guida e orienta l'azione
politica", la democrazia può facilmente convertirsi in un "totalitarismo
aperto o subdolo". È facile immaginare a quali "verità" stiano
pensando gli autori del testo.
Abbiamo di fronte una nuova concezione epistemica della libertà, che
contraddistingue il pontificato di Woytila. La sua pare propria una chiesa
libertaria: non c'è termine che ricorra più di frequente nei suoi
documenti. Nella Centesimus si afferma appunto, di contro ai vari
fondamentalismi scientifici e religiosi (che sofisticazione metterli sullo
stesso piano!), che "la chiesa [...] ha come suo metodo il rispetto della
libertà", aggiungendo subito dopo che "la libertà è
pienamente valorizzata soltanto dall'accettazione della verità".
È questa la strategia centrale, che si dispiega pienamente nelle due
encicliche più rilevanti dal punto di vista politico-culturale: la
Evangelium Vitae (1995) e la Veritatis Splendor (1993),
quest'ultima un vero trattato epistemologico. "La libertà rinnega se
stessa, si autodistrugge e si dispone all'eliminazione dell'altro quando non
riconosce e non rispetta più il suo legame costitutivo con la
verità", si scrive nella prima. L'individualismo e il relativismo
sottomettono tutto alla sovranità del singolo: "allora tutto è
convenzionale, tutto è negoziabile"! In questa situazione la democrazia
si avvia appunto a divenire totalitarismo (consumistico), mentre si diffonde
"una morale permissiva basata sulla ricerca a ogni costo della soddisfazione
individuale" (da Pornografia e violenza nei mezzi della comunicazione).
Nella Veritatis Splendor si va dritti al punto: "In alcune correnti del
pensiero moderno si è giunti a esaltare la libertà al punto da
farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori [...]: tali sono le
dottrine che attribuiscono ai singoli individui o ai gruppi sociali la
facoltà di decidere del bene e del male: la libertà umana
potrebbe creare i valori e godrebbe di un primato sulla verità, al punto
che la verità stessa sarebbe considerata una creazione della
libertà". È questa adorazione "idolatrica" della libertà
che si trasforma in sanzione dell'autonomia morale il grande peccato: la
libertà non è creazione autonoma di valori, ma rispetto della
verità; e l'unica verità disponibile sul mercato, ora che la
scienza e la politica sembrano andare incontro, dal punto di vista epistemico,
a una crisi irreversibile, è quella della fede. E quindi libertà
sì, ma non di adottare lo stile di vita che si preferisce se
contrastante con la verità (della fede). Si è liberi quando si
"obbedisce" alla verità: da qui la condanna di droga e aborto,
promiscuità e consumismo, di tutto ciò che sembra fondarsi su una
malintesa interpretazione della libertà come autonomia del singolo.
Sono questi i motivi per cui GPII riscuote tanto successo tra i
"modernizzatori" di destra e sinistra. Il papa usa lo stesso linguaggio dei
politici e dei tecnoburocrati, che ne condividono l'interpretazione ristretta e
autoritaria del principio di libertà. Le femministe "sensibili"
apprezzano i suoi attacchi contro prostituzione e pornografia; i solidaristi ne
apprezzano la dottrina "sociale"; i moralisti ne condividono l'attacco alla
proliferazione di stili di vita alternativi; a destra e sinistra si apprezza la
sua polemica contro il consumismo. Insomma, almeno in questo il papa è
utile: le nuove dimensioni della sua strategia non mettono in luce solo la
sostanziale incapacità della chiesa e della destra di accettare sino in
fondo la logica liberatoria della modernità, ma anche gli aspetti
autoritari e illiberali del ciarpame culturale della cosiddetta sinistra.
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