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Da "Umanità Nova" n. 33 del 1/11/98

Francoforte
Un forum sociale europeo, troppo europeo

Lo sconquasso dei rapporti sociali determinato dall'attacco neoliberista in economia e in politica invoca da più parti una resistenza che dappertutto sappia ostacolare, impedire e respingere quelle strategie volte a relegare nel più vieto passato ogni scambio contrattato, meglio concertato tra capitale e lavoro. E' ciò che si definisce declino del compromesso socialdemocratico, del modello fordista, oggi gestito in Europa da una dozzina di governi a impronta socialdemocratica, più o meno "neo".

In tale ottica, un gruppo di sindacalisti e intellettuali tedeschi ha lanciato l'idea di un forum sociale europeo dove discutere, affrontare in senso pratico e individuare politiche resistenziali; in Italia, a metà settembre un gruppo di sindacalisti CGIL e intellettuali, accomunati tanto per fare un esempio dalla collaborazione al "Manifesto", ha stilato un documento preparatorio comprensivo di alcuni temi di dibattito i quali, sia pure nella generalità, danno un'impronta neolavorista. Affrontando infatti la condizione del lavoro oggi in Occidente - lotta per l'occupazione, lotta contro la precarizzazione permanente, lotta per una migliore qualità del rapporto produzione-riproduzione, lotta per un controllo pubblico dell'economia finanziaria (misure fiscali sulla circolazione della moneta e dei capitali) - i proponenti intendono porre al centro della discussione questione "militante" dell'alternativa al quadro esistente.

Il 3 ottobre scorso, a Francoforte, si è tenuta la prima riunione del Forum sociale europeo, alla presenza di aree sindacli di sinistra che, a stare a sentire i bene informati, raramente avevano avuto il piacere di incontrarsi perché dominati dalle logiche nazionali che li inducevano ad acuire le diversità reciproche. La piattaforma di discussione che ha sintetizzato l'incontro segna, a mio avviso, un passo notevolmente indietro rispetto al documento di parte italiana. Scritta in linguaggio sindacalese, per di più istituzionale, questa sintesi enuncia una serie di temi ed obbiettivi che vanno dalla riduzione dell'orario di lavoro ad una politica coordinata dei salari su scala europea, dalla redistribuzione fiscale delle ricchezze prodotte alla "panacea" della soluzione occupazionale tramite la crescita della ricchezza. Il tutto in una cornice in cui l'apparato sindacale riconquista identità e forza rappresentativa agli occhi di quei lavoratori resi indifferenti alle varie tessere grazie alle politiche di moderata concertazione seguite da oltre un ventennio (il che ha portato il sindacato ufficiale ad essere pilastro ufficiale del sistema).

E' vero che si tratta di un primo incontro, in cui sono emerse volontà di riacciuffare un primato sfuggito di pugno, insieme a divaricazioni strategiche tra chi vorrebbe adottare un modello statunitense "liberal" (ossia flessibilità del lavoro ma garantita da un sistema minimale di garanzie, secondo quanto sostenuto dal Nobel Modigliani) e chi vorrebbe reinventare un modello renano neo-socialdemocratico, sull'onda delle sinistre al governo (compresa quella italiana...). Tuttavia, se queste sono le premesse, dubito che faranno tanta strada, anche se a livello nazionale si è optato non per un dibattito globale quanto per un decentramento in tanti mini - forum sociali su scala regionale, in maniera di arrivare a una posizione collettiva seguendo un percorso quanto più partecipato possibile, in maniera da arrivare a una posizione collettiva seguendo un percorso quanto più partecipato possibile (il "Manifesto" mette a disposizione le sue pagine in tal senso).

Quel che non convince affatto, almeno per ora, e al di là del peso dei sindacati ufficiali di stato (nelle varie differenze tra Italia, Germania, Francia e Spagna ad esempio) sui quali non vi è traccia di autocritica rispetto alle posizioni adottate, è il taglio complessivo dato alla discussione. Non si spiega come il welfare è rimpicciolito progressivamente grazie a una manovra a tenaglia di cui sindacati, governi e capitali sono stati i protagonisti consapevoli, lungo la linea dello scambio tra potere e sicurezza; non si spiegano le radici della crisi fiscale dello stato (che data a prima dell'avento dei noliberisti della scuola dei Chicago Boys, della reaganeconomics e del pugno di ferro di Lady Thatcher; si scavalca facilmente il nodo dell'impasse del binomio crescita - occupazione che colpisce tutti i paesi occidentali - il nord ricco del pianeta - grazie all'automazione, alla dislocazione degli impianti, al dumping della manodopera dei paesi poveri, alla volatilizzazione finanziaria dei capitali di investimento produttivo; si trascurano colpevolmente i costi per il sud del mondo di un modello di sviluppo che, nella sua policentricità, ha posto un unico paradigma articolato al nord e al sud, con quest'ultimo a trovarsi decollato per quanto riguarda poche élite filoccientali e il resto condannato alla povertà di ritorno.

Queste sono alcune delle critiche possibili da muovere al taglio dei documenti esitati intorno a questo spazio europeo di resistenza, che sembra aver abdicato ad ogni ipotesi emancipativa qualitativamente diversa per l'intera umanità e non solo per una fetta di privilegiati, tutto detratto, e a maggior ragione per un esiguo numero di burocrati preoccupati di salvaguardare il proprio potere (d'acquisto).

Salvo Vaccaro



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