![]() Da "Umanità Nova" n. 36 del 22/11/98 USA/IRAQ. Una tragica telenovelaSe non ci andassero di mezzo, in termini di vite umane e di beni di prima necessità, le popolazioni locali, il minuetto Saddam - Stati Uniti sarebbe degno di una soap opera stucchevole. Le ricorrenti crisi irachene risolte, o rinviate, sempre sul filo di lana, ormai non fa più smuovere i nervi a nessuno. A dire di tutti gli osservatori, il tira-e-molla con l'Onu è l'unica via che il dittatore di Baghdad ha a disposizione per convincere l'opinione pubblica mondiale a costringere il Consiglio di Sicurezza a revocare l'embargo che da ben 7 anni vessa l'Iraq all'indomani della sconfitta nella guerra del Golfo. Da un lato, infatti, è innegabile il degrado della popolazione irachena a fronte di un embargo che, ormai è risaputo, colpisce le popolazioni nell'intento di indurle a rivoltarsi contro i propri capi, che invece non vengono minimamente colpiti dalla situazione, anzi solitamente sono gli attori di ogni mercato nero e di ogni rapina legalizzata (in quanto è lo stesso governo a gestire gli aiuti umanitari: il caso jugoslavo di Milosevic insegna). Dall'altro, tuttavia, non crediamo minimamente che al dittatore di Baghdad importi qualcosa della propria popolazione. Dubitiamo che importi a qualcuno; anche l'ipotesi di un "ribaltone", propagandata da Clinton, contraddice non solo quanto gli Usa fecero all'indomani della guerra del Golfo, quando permisero alla guardia pretoriana di Saddam di annientare la rivolta sciita al sud del paese e quella curda al nord. Ma contraddice altresì il modo in cui liquidarono la faida interna al clan di Saddam (generi e parenti fuggiti ad Amman e poi rientrati per essere massacrati senza che gli Usa garantissero alcunché). L'alibi dei controlli sulle armi segrete di Saddam è una barzelletta a livello mondiale: a certi livelli, tutti sanno che i "tecnici" dell'Unscom sono talmente neutrali che prima di ritornare a New York e fare rapporto all'Onu, passano da Tel Aviv a fare quattro chiacchiere con gli israeliani. Per non dire che si mormora che alcuni siano a libro paga Cia. E comunque ogni tecnologia posseduta da Saddam è di origine occidentale, regolarmente venduta più o meno lecitamente ai tempi in cui il boss iracheno era fedele alleato dei "nostri". Infine, c'è da fare un'altra considerazione, a mio avviso più consistente di altre motivazioni. Nell'ambito della campagna propagandistica che mira a fare dell'integralismo islamico il nemico numero 1 degli Usa e quindi di tutto il mondo civile, la presenza militare nell'area araba (nei luoghi sacri dell'Islam in Arabia Saudita, che si trova di fronte a un dissenso interno, anche tra le fila degli sceicchi al potere; l'erede designato di re Fahd è meno malleabile nei confronti degli Usa di quanto si sospetti, e l'attacco a Bin Laden è in realtà un attacco ai sauditi meno disposti a tollerare l'alleanza politico-militare) è funzionale a garantire non solo le vie del petrolio, ma anche e soprattutto una egemonia regionale che gli Usa possono mantenere solo in via diplomatica, e quindi militare, non avendo più a disposizione una egemonia economica per poter <<pagare>> le alleanze. A ciò si aggiunga la complessa situazione afgana, iraniana, pachistana e dell'area caspica, con un crocevia di gasdotti e oleodotti, di accordi commerciali di sfuttamento di immensi giacimenti, di controllo di una eventuale disgregazione dell'ex impero sovietico, al cui interno la componente islamica sembrerebbe ancor più radicalizzata di quella originaria, divisa come è tra sunniti e sciiti, sempre in conflitto reciproco. Le evoluzioni sono come sempre imprevedibili a noi comuni mortali, e non solo sul breve termine dell'attacco armato. Senza dubbio, e non per fare dietrologia, ciò che appare come evidente è tale perché è funzionale alla disinformazione farlo apparire come evidente, in quanto la posta in palio è un consenso mondiale ad operazioni di dissuasione tese a distogliere l'attenzione dalle reali ragioni di un conflitto. Sulle cui "ragioni", al di là di considerazioni etiche, solo una attenta ricerca di fonti controinformative può illuminare. E, come insegna Chomsky, la migliore controinformazione in materia la fanno gli stessi americani nelle loro relazioni semi-riservate dei numerosi centri di ricerca e consulenza che sostengono le scelte decisionali in politica estera. Salvo Vaccaro
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