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Da "Umanità Nova" n. 36 del 22/11/98
"Pensiero unico" è la fortunata definizione che il direttore di "Le Monde Diplomatique" ha dato, in un editoriale di qualche anno addietro, della ideologia neoliberista che si pretende ineluttabile, universale e irreversibile: la globalizzazione. Una idologia potente perché tesa strategicamente a configurare di sé il contesto di rilevanza culturale al cui interno è possibile delineare una griglia interpretativa di quanto accade oggi nel mondo. Siccome i "dati" non sono mai neutrali, anzi si rendono "visibili" nel loro significato solo entro una griglia interpretativa, il pensiero unico lavora per porre una unica griglia in cui anche quegli eventi che sembrano contraddire l'omogeneità del processo di globalizzazione, sono aspetti in negativo che pure appartengono costitutivamente a quel medesimo processo e, al limite, ai suoi effetti di residuo, di scarto. Il pensiero unico si avvale di politiche di governo altrettanto uniche, al di là delle distinzioni tradizionali. Ma l'aspetto più interessante sembra essere il grado di autonomia dei poteri forti economico-finanziari rispetto alla politica ed ai suoi vincoli. Sembrerebbe infatti che alcune mosse del capitale globale prescindano dallo stato, la cui esistenza in fatto di privilegi del suo ceto politico vada elemosinata sulle ricadute benefiche degli investimenti finanziari sui mercati nazionali, che i governi incentivano apprestando misure di favore per quei capitali stessi. Ciò nonostante, l'ideologia si rivela quando se ne osservano gli effetti macroscopici di diseguaglianza che minano la credibilità della politica, che richiede costantemente fonti di legittimazione, a differenza dei mercati, dei suoi attori e dei capitali i cui atti non esigono né consenso pubblico (se non della consorteria stessa espressa nelle borse), né rappresentazione (se non tramite cooptazione, ad esempio, come nel metodo Mediobanca). In altre parole, i politici neoliberisti devono penare un po' per farsi rieleggere sulle proprie politiche specifiche - quando infatti non dirottano l'attenzione dell'elettorato su guerre, come fece la Thatcher con le Malvine/Falklands - mettendo in campo quanto di meglio offre il merchandising e il marketing di manipolazione elettorale, mentre i funzionari del Fmi e della World Bank, e in campo nazionale delle Banche centrali ed europee (da Fazio a Tietmayer, da Greenspan a Duisenberg), non si sottopongono ad alcuna pubblica verifica o competizione politica, pur dettando norme non tecnicamente neutre ma vere e proprie politiche ai rispettivi governi. I nuovi padroni del mondo si cooptano così tra di loro: sono 358 i più ricchi che detengono una ricchezza pari al 45% di quella detenuta dall'intera popolazione mondiale (a partire dal più povero, fanno poco meno di tre miliardi di persone); sono 2000 i leaders "reali" nel pianeta i quali, a livello finanziario, movimentano oltre 1000 miliardi di dollari al giorno, più di dieci volte l'intero ammontare al commercio mondiale annuo; sono 500 miliardi di dollari i capitali accumulati dai tre principali fondi di pensione americani, dieci volte la gigantesca questua che Usa, Fmi, Banca Mondiale e altri sono riusciti a racimolare per salvare se stessi e il Messico nel 1994 (il prestito più enorme della storia); Bill Gates, ma anche i narcotrafficanti colombiani, fatturano di più del Pil non solo della stessa Colombia (della quale potrebbero rilevare il debito pubblico e così "acquistarsela" in blocco), ma anche della Danimarca, ricco paese del nord del pianeta. Su queste dimensioni, si scatenano le politiche micro-nazionali di chi aspira a poter raccogliere qualche briciola se solo diviene élite politica riconosciuta di un qualsiasi mini-stato in via di formazione. Ecco le ragioni cosiddette secessive, interetniche, neotribali, claniche, dall'Africa all'ex Unione Sovietica. Ramonet offre una mappa aggiornata del caos che ha mandato in soffitta il Nuovo Ordine Mondiale che sarebbe dovuto sorgere sui frantumi del muro di Berlino, sulla dissoluzione dell'impero sovietico e sulle prove generali della guerra del Golfo. In tale scenario, vanno ripensate le azioni che possono segnalare una rotta altra, magari inceppando in sede locale questa idoelogia del pensiero e delle politiche uniche, smitizzando alcuni fantasmi della globalizzazione, della competitività, del commercio mondiale come via d'uscita agli squilibri nord/sud. In ultima analisi, la politica riconquista il primato sulle crude cifre dell'economia virtuale perché si apre un terreno di lotta diretta non solo contro le elites politiche statuali, ma anche contro il capitale globale nelle sue ramificazioni più estreme. Salvo Vaccaro
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