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Da "Umanità Nova" n. 37 del 29/11/98
Le ultime notizie intorno alla battaglia internazionale contro l'AMI fanno registrare un successo francese. Dopo la campagna di controinformazione e di mobilitazione, che si è estesa a buona parte dell'Europa e del continente nord-americano, il governo francese ha dichiarato in Parlamento la sua indisponibilità a proseguire i colloqui sulla traccia in discussione presso l'OCSE. Si tratta di un successo vantato non solo dalle associazioni e dai gruppi più impegnati contro una delle politiche neoliberiste, ma anche di spezzoni di sindacato e di esponenti del partito comunista al governo. Il paradigma è sempre lo stesso, ovunque: la mobilitazione dà il polso alle opportunità di proseguire o meno una certa iniziativa politica; se le condizioni non sono favorevoli, il ritiro viene spacciato come successo di quelle forze politiche che non avrebbero nemmeno dovuto avviare quella data iniziativa. Per loro, la posta non è di merito, ma di immagine, fondamentale per reperire consenso e legittimità. Il successo in una battaglia non è garanzia di vittoria definitiva. Meno che mai in politica. Nel caso in questione, i governi europei erano e sono più favorevoli a spostare tutta la partita sul tavolo dell'OMC. La differenza di sede internazionale non è solo relativa ai numeri degli stati partecipanti (22 all'OCSE, solo i ricchi del nord, oltre 90 all'OMC, compresi alcuni del sud del mondo), quanto alle alleanze stipulabili in funzione limitante i margini di manovra degli USA, che intenderebbero approvare l'AMI salvo tirarsi fuori per alcune clausole vessatorie nei confronti dei loro governi locali, che predicano liberismo a casa altrui, ma sono iperprotezionisti a casa propria. La lotta contro l'AMI, oltre ai contenuti sostanziali da rigettare, è significativa perché forse è il primo esempio di conflitto internazionale preventivo contro una politica del capitale transnazionale che scavalca programmaticamente la tradizionale mediazione degli stati. E' certamente vero affermare che la globalizzazione sta esordendo e quindi è inimmaginabile che si possa imporre compiutamente di primo colpo; lo stato che cede sovranità in alcuni piccoli campi mantiene ancora saldamento lo scettro regale, e tuttavia vanno posti, per questo genere di conflitti, quanto meno due interrogativi. Il primo concerne l'orizzonte entro cui si muovono tuttora questi movimenti intellettuali e militanti (ossia non pienamente sociali) antiliberisti: la contraddizione principale riguarda la strategia di neostatualità che intendono perseguire contro la finanziarizzazione del capitale speculativo che mina il prelievo fiscale degli stati. In soldoni (è il caso di dire...), le proposte vanno tutte in direzione di riaffermare il controllo governativo sulla moneta e sui capitali azionari e speculativi, vale a dire il ripristino di politiche neosocialdemocratiche tese a tassare i capitali, a governare i flussi di denaro in entrata e in uscita dagli spazi (virtuali) borsistici nazionali, a vietare determinate transazioni a rischio per la stabilità delle divise, a riportare in sede nazionale i poteri forti del Tesoro e delle Banche centrali nazionali. La contraddizione è palese: il movimento di base dovrebbe far fare marcia indietro a quegli stessi stati che sono i protagonisti di quelle politiche neoliberiste. Infatti la cessione di sovranità è avvenuta con il loro consenso deliberato. E qua si passa al secondo interrogativo: perché lo hanno fatto? solo perché lo stato è stato occupato dai fautori del neoliberismo ai tempi della Thatcher e di Reagan? Ipotesi riduttiva, forse nemmeno corretta dal punto di vista dei tempi di progettazione e di attuazione delle politiche neoliberiste, che risalgano alla metà degli anni '70, quando già veniva denunciata una crisi fiscale non più risolvibile con i tradizionali programmi di welfare e di redistribuzione (e la denuncia veniva da parte marxista, do you remember Jim O'Connor?). Ora, gli stati non sono entità astratte, sono spazi catturati da ceti politici, in feroce competizione tra di loro (queste sono in buona sostanza le elezioni democratiche: strumenti di selezione della specie) per garantirsi poteri e privilegi. Questi vanno conquistati tramite i consensi che soli danno legittimità a quei ceti altrimenti usurpatori a sbafo; e i consensi, in tempi di politica mediatica, costano denaro che gli stessi stati non dispongono più. E' possibile che il patto con il diavolo veda lo stato nelle vesti di Faust e il capitale transnazionale nelle parti di Mefistofele? ossia che pur di continuare a garantirsi poteri e privilegi, la politica statuale ceda pezzo dopo pezzo parte di sovranità al capitale in cambio del denaro necessario per accaparrare consensi? Un po' come una certa aristocrazia in decadenza ha svenduto lentamente ma inesorabilmente il proprio patrimonio alla borghesia famelica e aggressiva, rampante economicamente e politicamente, fino a sostituirsi completamente ad essa (modello Gattopardo); è quanto sta avvenendo con l'AMI, con il capitale transnazionale che prova a contrattare quote di cessione di sovranità con gli stati? Ultima considerazione. Accade e accadrà sempre più sovente che i luoghi di decisione politico-economica si clandestinizzeranno agli occhi di una opinione pubblica, anche avvertita, inebetita dallo spettacolo politico dissuasivo e irrilevante, cioè le crisi politiche locali, i ribaltoni, le alleanze instabili tra seconde e terze fila del potere reale nel mondo. Difficile sarà scoprire e confliggere luoghi invisibili; difficile sarà mobilitare forze contro poteri che nemmeno si sottopongono alle sempre più rituali e inutili verifiche elettorali; difficile sarà aggregare forze sparse per il mondo contro politiche maturate in modo occulto e da pochi personaggi ai più ignoti. Infine, difficile sarà individuare quegli ingranaggi da bloccare quando la scala planetaria delle politiche trova effetti locali differenziati, il che disunisce le forze, se non su un unico piano di deliberata destabilizzazione delle condizioni sociali. Piuttosto che cercare una riconquista dello stato, che dovrebbe agire da improbabile protagonista antiliberista alleato dei ceti più danneggiati da quelle politiche, si riafferma invece la necessità di un radicamento sociale, più che politico, legato alla moltiplicazione di strutture associative legate alla vita quotidiana degli individui, e non solo dei militanti tradizionali, con cui praticare stili sociali di esistenza incompatibili con le strategie neoliberiste e che rendono arduo la loro affermazione perché ne fanno mancare le condizioni al contorno: pratiche di solidarietà, forme economiche autogestite e non-mercantili, processi di autogoverno politico extraistituzionale, costruzione di strutture sociali che sostituiscano quelle esistenti ad impronta statuale, compresi quegli apparati irriformabili che sono le scuole, la sanità, la mutualità, ecc. In altri termini, la definizione di uno spazio pubblico non statuale impermeabile, perché estraneo, alle seduzioni del capitale. Salvo Vaccaro
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