![]() Da "Umanità Nova" n. 40 del 20/12/98 Il fascino istituzionale della sinistra ovvero il fascino sinistro delle istituzioniCi è capitato sovente, sugli ultimi numeri di UN, di rilevare come consistenti settori della vecchia nuova sinistra vadano imboccando, in maniere differenti, un percorso di integrazione nell'apparato dello stato e/o nel sistema delle imprese. Si tratta, a ben vedere, di processi, come dire, periodici per quel che riguarda l'area che si vuole antagonista all'esistente. Di fronte alla difficoltà di affrontare le contraddizioni che attraversano la società in maniera radicale, alla sensazione di essere chiusi in un ghetto, al dubbio che la propria attività sia ininfluente, residuale e sin patetica, la tentazione di riscoprire il realismo politico e il senso dell'opportunità è forte. Come è noto, però, il passaggio dal realismo all'opportunismo è breve e può capitare che dei terribili sovversivi di qualche anno addietro si scoprano una vocazione al dialogo con le istituzioni, prima, e al governo delle contraddizioni, poi, assolutamente rimarchevole. Vi è, anche da considerare il fatto che il ceto politico originato dai movimenti extrasistemici ha, dal punto di vista dello stato, il pregio di saper trattare con i dovuti modi questioni che il funzionario di taglio tradizionale rischierebbe di fare esplodere. Per farla breve, la periodica transumanza di militanti dell'estrema a forze istituzionali può essere valutata, legittimamente, come una caratteristica dell'attuale società e non meritare, di conseguenza, troppi ragionamenti. Vi sono, però, delle caratteristiche di ognuna di queste crisi che possono meritare una valutazione specifica sia per l'intelligenza dell'evento che, soprattutto, per affrontare le ricadute sul conflitto fra le classi dei mutamenti che si danno nello scenario politico. È sotto gli occhi di tutti il fatto che la rifondata rifondazione si sta ponendo, con qualche risultato, come polo attrattivo per i sindacati alternativi, i centri sociali, le associazioni che si collocano su una posizione critica verso l'esistente, molti militanti che non vi avevano aderito o se ne erano allontanati nella fase dell'appoggio "critico" al governo Prodi. La rottura con i malvagi cossuttiani ha, dal punto di vista simbolico, rinverginato rifondazione che appare libera dalle incrostazioni staliniane, burocratiche, istituzionali che ne avevano caratterizzato la storia. Intendiamoci, i cossuttiani sono effettivamente una delle espressioni più insopportabili della sinistra e il non frequentarli è assolutamente giovevole per la vita e la pratica politica di chiunque. Ci permettiamo, però, di rilevare, anche solo da questo punto di vista, alcune contraddizioni che i troppo entusiasti compagni che guardano con speranza al PRC sembrano voler dimenticare. In primo luogo, la rottura del PRC è tutto tranne che una scelta della "sinistra" di questo stesso partito e deriva, casomai, da giochi interni all'ulivo che hanno riverberato i propri effetti sul PRC. Ci riferiamo all'emarginazione di Romano Prodi ed all'assunzione nel ruolo di copertura esterna di Francesco Cossiga, per fare un solo, ma importante, esempio. In secondo luogo, è vero che un segmento decisamente discreto dell'apparato del PRC è confluito nel PdCI ma è anche vero che gran parte degli attuali bertinottiani è costituita da militanti profondamente legati alla tradizione del vecchio PCI se non da cossuttiani riciclati. Si tratta di elementi rilevanti per quel che riguarda la cultura politica della rifondata rifondazione, elementi che peseranno a breve quando si tratterà di trovare un qualche accordo con il centro sinistra sul piano elettorale per quel che riguarda le amministrazioni locali prima e il parlamento poi. D'altro canto, vi è chi potrebbe sostenere che non si può pretendere il tutto e subito, che in rifondazione la sinistra ha oggi uno spazio impensabile sino a qualche tempo addietro, che si tratta di innestare sul vecchio tronco di derivazione stalino-togliattiana robusti segmenti movimentisti al fine di modificare il PRC in maniera irreversibile. Visto che noi siamo difensori dichiarati della più ampia ed illimitata libertà non potremmo, a questo punto, che considerare una speranza del genere l'espressione della volontà di farsi del male e rivendicare, per chi ne trae piacere, anche questa particolare libertà. Si tratta, comunque, di avere chiare almeno due cose:
- la scissione non ha mutato in nulla la natura sociale del PRC che resta un partito parlamentare, fondato sulla delega degli elettori ad un corpo di rappresentanti istituzionali e su un corpo di funzionari di partito e di sindacato che si riproducono sulla base del modello tradizionale. È noto che, oggi, il PRC ha un apparato di scarsa consistenza e difficoltà di finanziamento ma si tratta di una situazione derivante dalla scissione e non di una scelta strategica. In altri termini, se rifondazione avrà una sorte felice e recupererà stabilmente il suo 8% dei voti riprodurrà la struttura precedente, se la sorte le sarà nemica diventerà, controvoglia, un partito extraparlamentare. Quello che è certo è che farà di tutto per evitarsi l'emarginazione in quanto soggetto istituzionale; - il programma politico del PRC resta assolutamente quello che era: la rivendicazione della difesa dello stato sociale contro l'offensiva neoliberista. Nei fatti, il PRC è a destra sul piano del progetto che lo caratterizza, delle socialdemocrazie dei primi decenni del secolo. Il riferirsi ad un'identità "comunista", necessaria a dare energia e compattezza al corpo dei militanti, non modifica di una virgola questo carattere del partito. Non da oggi le messe domenicali "rivoluzionarie" sono funzionali alla quotidiana pratica riformista. E, a dire la verità, le messe di oggi sono assai poco rivoluzionarie e si caratterizzano, piuttosto, per il fatto di rinsaldare il legame fra lavoratori, da una parte, e cultura della vecchia sinistra statalista, dall'altro. Qualcuno di coloro che leggerà queste riflessioni potrà anche, e forse con qualche ragione, ritenere che noi siamo dei grilli parlanti che non si "sporcano le mani" con l'intervento di massa e con le questioni concrete che toccano la vita di milioni di lavoratori qui ed oggi. Di fronte ad una considerazione del genere, credo che si debbano fare due osservazioni: - in primo luogo, il parlamentarismo non ha mai dato ai lavoratori quello che non erano in grado di conquistare con la lotta, l'azione diretta, l'iniziativa dal basso e, se qualcosa possiamo concedere ai fautori della politica parlamentare, si tratta solo della considerazione che il parlamento, sotto la pressione dei movimenti sociali, può ratificare mutazioni legislative per qualche verso favorevoli ai lavoratori ma volte, sul medio periodo, a depotenziarne l'iniziativa; - in secondo luogo, proprio nelle fasi come l'attuale si verifica tutta l'impotenza del parlamentarismo "rivoluzionario" anche dal punto di vista della difesa delle libertà minime e di diritti conquistati con lotte dure e impegnative. Infine, proprio perché rifiutiamo ogni astratta purezza e, al contrario, sappiamo bene che solo l'azione collettiva dei lavoratori può modificare l'ordine sociale sia su questioni parziali sia, certamente, dal punto di vista generale, crediamo che l'intervento quotidiano dei compagni debba essere volto a combattere ogni illusione sulla possibilità di risolvere le questioni grazie agli "amici del popolo". Si tratta, quindi, di evitare ogni equivoco. il rifiuto delle sirene parlamentari significa proprio porre al centro della propria azione la questione sociale e la costruzione di strutture autorganizzate di lavoratori, di disoccupati, di senza potere. CMS
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