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Da "Umanità Nova" n. 40 del 20/12/98
Il Gruppo Anarchico Teatro Comunitario è una delle esperienze
politiche ed artistiche più interessanti del sessantotto napoletano (e
non solo): non un gruppo teatrale che si "politicizza", e nemmeno un gruppo
politico che utilizza il teatro come strumento di propaganda politica,
bensì una struttura che vuole andare oltre queste separazioni, ed essere
allo stesso tempo un gruppo politico, una comunità di vita ed una
struttura di elaborazione di nuovi linguaggi teatrali e politici.
Il Teatro Comunitario possiede una sua peculiarità anche rispetto
all'esperienza del Living Theatre nordamericano, cui pure si ispira e
con cui ha stretti rapporti, e soprattutto rispetto all'esperienza del teatro
politico "d'avanguardia" dell'epoca. Il Teatro Comunitario, infatti, non
pone l'accento sulle forme, sul significante - pur producendo anche
significative innovazioni della scrittura del testo scenico[1] - e pone invece la massima cura nella veicolazione del
contenuto, del significato, dell'ideologia rivoluzionaria e libertaria presso
le masse popolari della città. Il Teatro Comunitario fonde
perciò le tecniche del teatro di strada libertario - l'abolizione della
distanza fra "attore" e "spettatore", il coinvolgimento dell'intera
città nello "spettacolo", la comunicazione dei contenuti politici
attraverso il potenziamento del contatto con le proprie emozioni, ecc. - con
l'utilizzo cosciente delle tradizionali forme antropologiche della presenza di
massa nelle strade napoletane.
All'epoca della Strage di Stato il Teatro Comunitario si fa carico di
organizzare nel napoletano la risposta militante alla tragica provocazione.
L'attività del Gruppo continuerà ancora per alcuni anni, e
vedrà l'adesione alla Federazione Anarchica Italiana - di cui
gestirà nei primi anni settanta la Commissione Cultura[2] - per sciogliersi definitivamente a metà del 1973.
Fino al 1979, sotto vari altri nomi - Teatro dell'Azzeramento, Napoli
Città Teatro, ecc. - l'anima del gruppo, Toni Ferro,
aggregherà vecchi e nuovi compagni in nuovi tentativi di Teatro
Comunitario, fino al suo trasferimento per motivi di lavoro in Calabria
(attualmente è Docente e, da sedici anni, Direttore dell'Accademia di
Belle Arti di Catanzaro, nonché Docente a Contratto presso il DAMS
dell'Università di Cosenza).
Abbiamo rincontrato Toni Ferro in occasione della sua partecipazione a
Napoli Frontale, una mostra sul sessantotto napoletano tenutasi la
primavera di quest'anno. Nel contesto dell'organizzazione di tale iniziativa,
gli è stata fatta da shevek una video-intervista, della quale
presentiamo alcuni stralci.
IL TEATRO COMUNITARIO
"Negli anni sessanta facevo lo scenografo, ed ho avuto la fortuna di lavorare
con gli autori e registi più importanti del teatro napoletano: De
Filippo, Viviani_ (_) Quando è giunto il '68 ero uno scenografo
affermato e avevo avuto la fortuna di assimilare questo grande spirito che
anima la cultura napoletana, che passa attraverso il teatro, la musica, la
pittura: una civiltà che io conoscevo profondamente (_).
Perché dico questo? Perché quando nel '68 ho assunto la mia
posizione di anarchico, a differenza di molti altri compagni, l'ho fatto
proprio a partire da una riflessione sul mio retroterra culturale e
antropologico. Dicevo ai compagni: per fare una vera Rivoluzione, occorre
partire dalla propria identità culturale. Bisogna cambiare, ma per
cambiare c'è bisogno di cambiare le persone del popolo, e allora occorre
parlare il loro linguaggio.
Inventammo dunque lo slogan "il problema della cultura deve essere di piazza":
volevamo portare l'arte, la scienza, la politica, nell'agorà, nei
vicoli, nel centro storico, nei rioni popolari_ (_) Facevamo un teatro di
strada che chiamavano "Teatro di Guerriglia Semiologica Urbana": sceglievamo un
luogo in cui di solito accadeva ben poco, e facevamo in modo da interrompere il
monotono accadimento della vita quotidiana, trasformando
quest'accadimento in un evento (_). Usavamo questa strategia per
catturare l'attenzione della gente, per creare un'assemblea in piazza, dove
parlare con la gente di problemi quali il Vietnam, la pace, la povertà,
l'ingiustizia, la casa, l'emancipazione femminile, il nucleare_ (_).
I vari gruppi dell'epoca avevano come una sorta di vergogna nel rimandarsi alla
propria cultura: noi insistevamo invece sul fatto che dovevamo fondarci su di
essa per entrare in contatto con la gente, e che anche così si poteva
fare grande cultura, trovare nuovi linguaggi per il teatro, per l'arte, per la
politica. (_)
La ricerca artistica degli anni sessanta giocava sostanzialmente sul
significante, perdendo di vista il significato, facendo diventare
l'arte un linguaggio autoreferenziale. Ora l'arte, di fronte ad una tale scelta
di debolezza del concetto, non poteva e non può avere vero impegno
politico, perché questo è innanzitutto concetto, idea: e invece
noi del Teatro Comunitario teorizzavamo e praticavamo il teatro, l'arte,
come mezzo per giungere alla rivoluzione politica. Non ci interessava una
rivoluzione puramente estetica, anche se, rivedendo le nostre scelte d'allora,
la nostra critica d'una scrittura scenica oramai obsoleta, devo dire che
abbiamo fatto anche una notevole rivoluzione linguistica.
Nelle assemblee di studenti, di lavoratori, a differenza degli altri gruppi che
"facevano il discorso" noi "facevamo il gesto", un'azione significativa. Questa
strategia funzionava soprattutto nelle strade, con la gente. A Napoli, un
evento tipico della cultura popolare è la processione, dove si portano
in giro le immagini sacre per i vicoli della città; ebbene noi abbiamo
fatto una processione liberatoria portando in giro per via dei Tribunali
un televisore, cartelloni pubblicitari. Utilizzavamo questa struttura
antropologica, in maniera paradossale, grazie anche all'ironia della gente, per
svolgere una critica dei mass-media e della mercificazione dell'esistenza:
prendevamo le forme dell'apparato del sistema per rivolgergliele contro.
Utilizzavamo allo scopo un modo d'essere della cultura napoletana, presente nel
parlare, nel ridere, nel fare all'amore, che si è espressa a livello
"alto" in personaggi come Eduardo De Filippo, Raffaele Viviani, volendo anche
Totò. Tutto questo patrimonio, a un certo momento, era diventato
"conservazione"; si riteneva che innovare significasse rinunziare
all'identità; ma io e i compagni del Teatro Comunitario abbiamo
ribadito con forza che la rivoluzione nasce dalle radici del popolo, dalle
forze liberatorie nascoste all'interno della sua stessa cultura.
MARXISMO ED ANARCHISMO
Purtroppo il movimento del '68 fu egemonizzato dalla componente marxista, che
propugnava una concezione autoritaria del comunismo, mentre la concezione
libertaria divenne una componente minoritaria. (_) Avevamo continui scontri
sulla strategia rivoluzionaria: io ho sempre sostenuto, in polemica con il
marxismo, che non bastava incidere sull'economia per fare la Rivoluzione, ma
che occorreva anche una battaglia ideale, che penetrasse profondamente le
coscienze degli individui e le culture dei popoli. Ciò che non ha
funzionato, tra le altre cose, nel marxismo realizzato, è stata la
riduzione, l'annullamento centralistico delle identità culturali. Sono
stato in Russia in quegli anni, dalla Siberia al Kazakistan, dove pure ti
accorgevi che c'erano culture differenti, ma queste erano appiattite,
omologate, né più né meno di come faceva il capitalismo
occidentale.
L'omologazione inibisce le culture, mortifica le identità, e chi opera
così avrà sempre una vittoria fittizia, avrà in pratica
vinto perché sul momento è il più forte, ma la sua
vittoria non durerà, perché non avrà conquistato
spontaneamente le coscienze. Per questo dicevamo - senza peraltro negare tutte
le altre forme di azione - che la vera Rivoluzione era soprattutto una
Rivoluzione Culturale; il che non significa far studiare Marx od anche Bakunin,
ma costruire la propria azione politica a partire da una cultura sentita,
reale, permeata nel quotidiano, e da lì operare tutta una serie di
passaggi verso una vita liberata dalle ingerenze del capitalismo e dello Stato.
(_)
Un altro limite del movimento era l'egemonia studentesca ed intellettuale. I
lavoratori, certo, avevano una loro attiva e massiccia presenza, ma le
connotazioni al movimento le davano gli intellettuali, i quali, tra l'altro,
avevano assai spesso un atteggiamento snob nei confronti della cultura
popolare. Di qui poi la crisi ed il distacco dal movimento di quelle masse
popolari che pure avevano guardato ad esso con attenzione.
Ciononostante, non credo che il '68 sia stato un fallimento, perché ha
portato comunque a degli enormi cambiamenti nella vita quotidiana degli
individui in famiglia, nei rapporti fra i sessi, a scuola, al lavoro_ Per fare
un esempio, gli studenti oggi non hanno idea di quale fosse il rapporto
autoritario esistente prima di quegli anni tra studente e docente, e tra
docente e preside. Queste sono state tutte conquiste del '68, ed ogni volta che
sono toccate io mi preoccupo profondamente: so cosa c'era prima, e non auguro a
nessuno di tornare indietro (_).
IL FUTURO DELLO SPIRITO RIVOLUZIONARIO
Oggi persino l'ONU, che non è precisamente un movimento rivoluzionario
di sinistra, è costretta a parlare della necessità di uno
"sviluppo controllato" del capitalismo. Certo può trattarsi di una sorta
di autocritica del sistema, ma a me la cosa fa ridere: se uno investe soldi per
ottenere un profitto, che razza di "controllo" gli si può chiedere?
Volete che butti i denari dalla finestra? Insomma, io non credo che questo
sistema possa autocorreggersi, e nemmeno che si possa ritentare la strada
autoritaria del marxismo. Se l'umanità ha qualche speranza, si
potrà salvare solo nel segno della libertà,
dell'autodeterminazione degli individui e dei popoli. (_)
Dicevo all'inizio che io non mi sono fermato, che per me il '68 non è
nostalgia, qualcosa di morto da raccontare ai figli, e che le ricerche che
faccio oggi sono la conseguenza di qualcosa che è nato in quegli anni.
Io non mi ritengo un "reduce", ma uno che continua quella battaglia d'allora
nella sua attività attuale d'artista e di educatore. (_)
Naturalmente quello spirito collettivo che esisteva allora non c'è
più ed un'artista come me si ritrova solo, come spesso è successo
agli artisti nella storia. Quindi l'artista solitario deve trovare gli
strumenti per fare la sua rivoluzione. Io, poiché il sistema vuole
dall'artista il prodotto da rendere merce, dagli anni sessanta alle ultime
esperienze ho gradatamente spostato la mia attività d'artista
dall'opera alla testimonianza. Credo, infatti, che la cosa
migliore da fare per portare avanti una battaglia rivoluzionaria in questi
tempi di solitudine sia, in qualunque campo ci si trovi a vivere ed operare,
quella di continuare, testardamente, a portare avanti con coraggio, anche se
isolati, la propria testimonianza.
[1] Su questo punto (e, più in generale,
per un approfondimento della storia e del significato artistico e politico del
Teatro Comunitario) vedi DORIA, Petruzza, Joseph Beuys e Toni Ferro.
Artisti del dissenso, Roma, Gangemi, 1996.
[2] Sono ad opera del Teatro Comunitario
i materiali elaborati dalla Federazione Anarchica Italiana in occasione
del centenario della Comune di Parigi (1971) e della fondazione della
"Internazionale Antiautoritaria" (1972).
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