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Da "Umanità Nova" n.1 del 17 gennaio 1999

Eurolandia: favole, miti, realtà

Siamo reduci del lungo "changeover weekend", la partenza dell'euro e la fine (speriamo) delle tonnellate di retorica che hanno preparato e assistito il faticoso parto. Siamo anche alla fine di un anno un po' speciale e alla partenza di una fase nuova, quindi nelle condizioni migliori per tracciare un primo bilancio.

Questi sette anni dal 1991 al 1998 sono stati sicuramente vissuti all'inseguimento della convergenza: per essa sono stati chiesti e imposti sacrifici senza precedenti, sono state fatte manovre finanziarie per circa 500.000 miliardi (di lire), sono state tagliate pensioni, sanità e prestazioni sociali, si sono bloccati i salari pubblici e privati. D'altro canto si è invertita la rotta sulla politica monetaria, si sono abbassati i tassi d'interesse, si è arrivati a forti avanzi nel bilancio primario dello stato, si è abbassato il deficit pubblico dello stato, anche se non ancora il debito pubblico accumulato negli anni. La realtà ha molte sfaccettature, a seconda del punto di osservazione.

L'Unione Monetaria è un aspetto del più generale fenomeno della globalizzazione, e in questo senso assume un carattere prevalentemente economico-finanziario. Al di là dei 300 milioni di consumatori che vengono a formare un mercato integrato paragonabile ai due poli rivali di Usa e Japan, c'è ben poco da raccontare. La dimensione politica dell'Europa fa acqua da tutte le parti, si litiga persino per le spese di gestione delle istituzioni comunitarie, c'è da sempre un forte contrasto sulle politiche agricole, sugli interessi geo-strategici, sulla riduzione degli squilibri e così via. Questa matassa di problemi non sembra avviarsi a soluzione neanche ora che la leadership europea è alquanto omogenea, sotto le bandiere della socialdemocrazia riformista.

La grande spinta per l'integrazione è venuta dalla grande impresa e dall'alta finanza, che hanno bisogno di dispiegare le proprie energie competitive su un mercato sufficientemente ampio. Come controprova possiamo analizzare le lamentele della Volvo svedese, critica nei confronti del governo che rifiutando di entrare nell'Ume le avrebbe arrecato molti milioni di corone di perdite. Al contrario i processi di risanamento e rilancio del sistema paese sembrano essere stati un toccasana per tutto il complesso delle imprese italiane quotate in borsa: nel 1998 Piazza Affari è salita del 46%, passando da 600.000 a 929.000 miliardi di capitalizzazione (di cui solo 39.000 giustificabili come ingresso di nuove società). La prospettiva dell'Unione Monetaria ha dunque finito per creare valore virtuale in misura imponente, visto che in un anno i fondamentali delle società italiane non possono certo essere migliorati in modo così sensibile. Nè del resto si può pensare che il balzo del 6% delle principali borse europee, verificatosi il 4/1/99, sia rispondente ad una logica economica razionale: il listino di Milano, da solo, ha creato in un giorno 34.800 miliardi dal nulla, sotto l'ondata della liquidità che si è abbattuta sul mercato in assenza totale di venditori.

Il rialzo vertiginoso delle quotazioni ha molte cause e, come vedremo, alcune conseguenze non proprio piacevoli.

Il pesante crack delle borse mondiali dell'autunno scorso è stato recuperato in tempi molto brevi attraverso una serie di interventi d'emergenza che possiamo sintetizzare in quattro punti:

1) l'allentamento monetario di 3/4 di punto da parte della Federal Reserve americana nel periodo 29/9/98 - 17/11/98;

2) il rifinanziamento del Fondo Monetario Internazionale con 90 miliardi di dollari, per aiutare Russia e Brasile;

3) il piano di salvataggio delle banche e di rilancio del sistema produttivo in Giappone con fondi pubblici per 600.000 miliardi di lire;

4) l'impegno congiunto dei vertici europei di far ripartire la domanda anche con ricorso a deficit spending, passando dalla difesa intransigente della moneta al rilancio dello sviluppo, anche con abbassamento dei tassi europei sotto il 3%.

I padroni del mondo hanno in sostanza deciso di allargare i cordoni della borsa. Se a questo aggiungiamo che la nuova realtà globalizzata impone il contenimento di qualunque fattore produttivo, quindi anche del fattore capitale (peraltro mai a costi così bassi da 30 anni a questa parte), abbiamo un'idea del ciclone di liquidità disponibile che ha investito in breve tempo i mercati finanziari. E' evidente a tutti che non essendo stati risolti, neanche in superficie, i problemi fondamentali che avevano originato lo scoppio delle precedenti bolle speculative, si stanno creando i presupposti per nuovi e più violenti crack finanziari. Il perdurare di prezzi bassi delle materie prime, lo squilibrio conseguente tra concentrazione dei bisogni nelle aree povere del pianete e impossibilità di finanziarne il soddisfacimento, la carenza di domanda pagante nei paesi del nord del mondo determinata dai salari troppo bassi, la sovracapacità produttiva di settori centrali come l'auto, non possono che minare alla base le prospettive di uno sviluppo lineare del sistema .

Tuttavia l'area euro sembra costituire in qualche modo un baluardo verso l'instabilità economica internazionale. In particolare la pressione delle economie di scala, dei risparmi di costi necessari in un contesto di domanda stagnante, finirà per costringere anche le imprese europee a fondersi tra loro per sopravvivere. E' questa la scommessa dei gestori dei fondi e degli investitori che hanno brindato all'euro comprando a mani basse sui listini europei. Fusioni e acquisizioni hanno accompagnato tutto il 1998, ma la grande corsa europea deve ancora partire. In tutti i settori principali, dall'auto alla chimica, dalla telefonia alla finanza, dalle assicurazioni alle banche, si va verso una crescita della dimensione media d'impresa. Ristrutturazioni e fusioni significheranno tagli ed esuberi, e la riforma del welfare sembra preparare il terreno ad una gestione adeguate delle problematiche sociali. In Italia ad esempio si spende soo 18.000 miliardi l'anno tra cig, prepensionamenti, Lsu, assistenza, meno di 1/20 di quanto si spende per le pensioni e meno di un 1/5 di quanto si spende per la sanità. Il nuovo welfare toglierà ai pensionati per dare ai disoccupati, ridurrà la sanità pubblica per aumentare le forme di sostegno ai poveri e così via, badando bene naturalmente all'invarianza dei costi, cioè a ridistribuire le poche risorse disponibili all'interno degli stessi gruppi sociali, senza intaccare la sostanza di una distribuzione del reddito e dei carichi fiscali profondamenti ingiusta e classista.

A questo proposito è stato interessante leggere nei giorni scorsi le rassicurazioni dei padroni riguardo al fatto che le profonde differenze salariali esistenti in Europa sono destinate a rimanere tali. Il Sole 24 Ore del 2/1/99 riportava ad esempio a pag. 5 che un metalmeccanico italiano guadagna al lordo 20.600 euro, contro i 37.000 di un tedesco e i 27.000 di un francese; per un impiegato lo stesso rapporto diceva 28.400 euro l'anno, contro 39.800 di un tedesco e 38.000 di un francese. L'unico lavoratore italiano a salario europeo è il manager: 77.500 euro l'anno, in linea e a volte anche oltre la media degli altri paesi. Sebbene lo stesso articolo accennasse alla possibilità di un adeguamento nel lungo periodo (con un aumento potenziale del 4%), tre giorni dopo (5/1/99 pag. 21) il capo Centro Studi Confindustria, Guidalberto Guidi, si incaricava di sottolineare la validità dei salari bassi come fattore competitivo, auspicando naturalmente il mantenimento dei differenziali attuali. Tutto ciò a fianco di una tabella che denunciava il costo del lavoro italiano dollaro/ora a 16,74, contro i 28,28 della Germania, 17,97 della Francia e 20,61 dell'Olanda, davanti soltanto a Irlanda, Spagna e Portogallo.

La realtà dell'Unione Monetaria è dunque molto diversa dalle favole. E' vero che si abbassa un po' il costo del mutuo, ma la ristrutturazione del welfare, la privatizzazione delle imprese di servizio pubblico e il rincaro delle tariffe fa sì che si abbassi in misura rilevante il salario sociale complessivo. La mercificazione dei servizi implica di pagare tutto, mentre i salari sono inchiodati a parametri astratti che non riflettono l'imponente aumento della produttività del lavoro. Cominciare a riflettere sul cambiamento profondo della vita materiale significa già porsi il problema di come resistere. Spezzare questo pesante disciplinamento produttivo diventa un imperativo categorico, il primo passo verso un'Europa delle lotte e del protagonismo sociale come nuovo scenario della lotta di classe.

Torino, 6/1/99

Renato Strumia



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