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Da "Umanità Nova" n.1 del 17 gennaio 1999

Iraq: la guerra che non è mai finita

I bombardamenti dell'aviazione inglese e statunitense in Iraq hanno riaperto gli scenari della guerra che all'inizio di questi anni '90 si è combattuta nel Golfo Persico, ci hanno riportato dinanzi agli occhi le immagini di una guerra che in realtà non si è mai conclusa, una guerra la cui principale vittima è stata la popolazione civile.

Quando, nel febbraio del '91, le truppe americane interruppero la loro avanzata verso Baghdad e venne proclamato l'embargo economico verso l'Iraq, divenne del tutto chiaro che, nonostante la retorica che aveva preceduto, accompagnato e seguito le operazioni nel golfo persico, il novello Saladino Saddam Hussein non era tra gli obbiettivi reali dell'operazione "Tempesta nel deserto".

Sette anni orsono, interrompendo la loro avanzata ormai inarrestabile verso Baghdad, gli americani consentirono al dittatore irakeno di soffocare nel sangue le rivolte degli sciiti e dei curdi, rispettivamente al sud ed al nord del paese. Il tutto con buona pace di chi in Europa esercitava le fini arti della dialettica per decidere chi tra i due contendenti fosse il meno peggiore.

Se confermate, le voci di massacri di iracheni sciiti nel sud dell'Iraq, paiono riprodurre anche in quest'aspetto scenari del passato.

Evidentemente non sempre è utile annientare un nemico, poiché in certi casi può essere di gran lunga più produttivo tenerlo sotto tiro senza distruggerlo.

Gli Stati Uniti, le cui necessità di approvvigionamento petrolifero dipendono per un buon cinquanta per cento dalle importazioni, e che da sempre mirano a garantirsi il controllo dello sfruttamento delle risorse petrolifere, hanno grande interesse a mantenere sotto pressione l'Iraq, senza tuttavia compromettere i delicati equilibri del medio oriente. Non dimentichiamo inoltre la pressione indiretta sui paesi europei il cui bisogno di risorse petrolifere non è certo minore di quello statunitense. Non è certo un caso che l'unico paese europeo schieratosi in modo netto a fianco degli americani sia stata la Gran Bretagna, ossia l'unico paese che ha riserve petrolifere proprie nonché la necessità di mantenere alto il prezzo del greggio per sostenere il petrolio del mare del nord i cui costi estrattivi sono più alti di quelli del medio oriente.

In molti hanno indicato quale fattore principale del rapido precipitare degli avvenimenti la necessità del presidente americano di esercitare pressione sulla camera che doveva decidere sull'avvio del processo di destituzione per lo scandalo sexygate. E' probabile che la fretta di Bill Clinton di rinfrescare la propria immagine abbia contribuito ad accelerare i tempi della crisi.

Resta il fatto che, quella di scatenare la guerra in Iraq è una scelta rischiosa, difficilmente spiegabile con la mera esigenza di ammortizzare gli effetti del sexygate.

Non può aver mancato di pesare la crescente richiesta di finanziamenti da parte degli apparati militari, desiderosi di aggiornare gli armamenti. Il Pentagono calcola che nuove armi e più sofisticati strumenti di comunicazione avrebbero necessità di un investimento di trecentocinquanta miliardi di dollari. Per il Pentagono una guerricciola ogni tanto è il modo migliore sia per sperimentare nuove tecnologie sia per convincere l'opinione pubblica della necessità di nuovi investimenti nel campo degli armamenti.

Intanto dopo gli intensi bombardamenti anglo - americani in territorio iracheno, Saddam Hussein ha deciso di ignorare il divieto di sorvolare la cosiddetta no fly zone, ossia quell'area che gli americani al termine della prima fase guerreggiata del conflitto in Iraq dichiararono interdetta ai velivoli iracheni. Pertanto mentre scriviamo questa nuova fase "calda" del conflitto appare tutt'altro che conclusa.

Sempre più complesso ed ambiguo appare il ruolo dell'ONU, che si è visto di fatto esautorare da Clinton e Blair e che fatica a ridefinire un ruolo anche solo formalmente indipendente da quello delle maggiori potenze. Le ultime notizie ritraggono un Kofi Hannan, impegnato in complessi slalom diplomatici per tentare di riprendere in qualche modo l'iniziativa. Da un lato infatti lo abbiamo visto opporre un secco diniego alle richieste irachene di allontanare il personale americano e inglese impegnato in Iraq in operazioni umanitarie per conto dell'ONU, dall'altro è probabilmente all'origine delle indiscrezioni che accuserebbero gli ispettori della commissione ONU di controllo sul disarmo iracheno, l'Unscom ed in particolare il suo presidente, l'australiano Ruichard Butler, di essere spie al servizio degli americani. Si può forse supporre che il siluramento di Butler possa costituire la premessa ad un'azione diplomatica volta a indurre il governo di Baghdad ad accettare una nuova Commissione di controllo ONU.

Quel che è certo è il fatto che ormai gli Stati Uniti ritengono di poter dispiegare la propria potenza militare senza neppure il riparo formale di un mandato delle Nazioni Unite, il cui ruolo si è venuto progressivamente ridimensionando negli ultimi anni.

In ogni caso al di là delle schermaglie della diplomazia e al di là degli eventi bellici in senso stretto resta il dramma delle popolazioni che vivono in Iraq, oppresse da una feroce dittatura e martoriate dai bombardamenti e dall'embargo economico.

Sette anni orsono la guerra guerreggiata fece duecentomila vittime, negli anni successivi, la denutrizione e la mancanza di medicinali hanno mietuto altri morti tra la popolazione civile - le varie stime li calcolano tra gli ottocentomila e il milione e mezzo -.

Dopo la fame e le malattie sono tornate le bombe: tre giorni di intensi bombardamenti e poi nelle settimane successive un continuo stillicidio di scontri soprattutto nei cieli ci danno l'immagine di una guerra che continua.

Una guerra come tutte le guerre dove gli interessi dei potenti calpestano la vita e la dignità dei più deboli.

Maria Matteo



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