Da "Umanità Nova" n.1 del 17 gennaio 1999
Patto sociale
Un modello neocorporativo
Coloro che hanno fatto lo sforzo di leggere il "Patto sociale per lo sviluppo e
l'occupazione" e, nei limiti del possibile, i seguenti commenti da parte dei
dirigenti confindustriali e sindacali oltre che quelli dei commentatori, come
dire, professionali avranno notato come l'accento sia stato posto su aspetti
diversi del patto stesso.
La Confindustria, per bocca di Fossa, si è dichiarata ragionevolmente
soddisfatta di quello che ha portato a casa: più di 15.000 miliardi a
breve sotto forma di riduzione dei carichi contributivi e l'impegno ad
un'ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro gestita congiuntamente
da governo, padronato e sindacati istituzionali.
Altrettanto hanno fatto gli esponenti delle altre associazioni padronali e per
le stesse ragioni.
I capi dei sindacati di stato sono perfettamente d'accordo con quelli delle
associazioni padronali e hanno buone ragioni per esserlo: il loro ruolo di
cogestori dell'"integrazione dell'Italia in Europa" è stato pienamente
riconosciuto.
Il governo esce dalla vicenda in questione decisamente rafforzato e ricuce le
tensioni che si erano determinate con il padronato e l'apparato sindacale.
Riprendendo la spesso citata affermazione del senatore Agnelli, alla vittoria
dell'Ulivo, sul fatto che un governo di sinistra avrebbe finalmente potuto fare
una politica di destra potremmo affermare che un governo spostato ancora
più a sinistra (con D'Alema in luogo di Prodi e alcuni ministri
cossuttiani) può fare una politica ancora più di destra.
Fuor di burla, è assolutamente evidente che i DS dovevano portare a
termine alcune operazione che la faida interna che ha posto fine al governo
Prodi aveva rallentato e che D'Alema deve essere definitivamente sdoganato come
leader di una sinistra responsabile, moderna, liberale, moderata, occidentale,
europea e via vaneggiando.
I critici di sinistra, liberale, e di destra del patto hanno posto l'accento
sulla difficoltà di garantire la copertura degli impegni presi. In altri
termini, le risorse necessarie a tagliare il costo dei contributi per le
imprese verranno rastrellate con la mitica carbon tax e con l'auspicata
riduzione dell'evasione fiscale e, quindi, con risorse non certe.
È mia opinione che questo sia l'ultimo dei problemi per il governo che,
nel caso ci siano difficoltà, si limiterà a imporre qualche nuova
tassa sui redditi delle classi subalterne o a realizzare qualche taglio del
welfare.
I critici di sinistra, come dire, estrema rispetto al governo hanno presentato
la manovra come un esempio dell'attacco neoliberista ai lavoratori italiani,
attacco dettato dalla sottomissione del governo ai poteri forti europei (banca
centrale, eurocrati ecc.).
Su questa lettura di questa, come di altre, vicenda vorrei sollevare alcuni
dubbi.
Se definiamo "neoliberismo" il semplice spostamento di risorse dal bilancio
dello stato alle imprese, effettivamente questa, come altre manovre, è
neoliberista. Se, però, poniamo l'attenzione, e non per il gusto del
dettaglio, sulle modalità di svolgimento di queste operazioni la
definizione non è affatto corretta e non ci aiuta a comprendere i
termini dello scontro politico in atto.
Come si è, infatti, brevemente ricordato, il patto sociale in questione
disegna un organico modello di governo della società, modello che
prevede la partecipazione a tutti i livelli (nazionale e locale, confederale e
categoriale) dell'apparato sindacale nella gestione di ogni scelta.
In realtà, infatti, siamo di fronte al perfezionamento di un modello
neocorporativo che ha caratterizzato le politiche di diversi paesi dell'Europa
centrale e settentrionale (il cosiddetto modello renano) e che sta pervenendo a
piena realizzazione in Italia.
Caratteri di questo modello sono:
- il raggiungimento di obiettivi analoghi a quelli perseguiti dalle componenti
neoliberiste del capitalismo;
- limitazione degli effetti distruttivi del neoliberismo stesso attraverso una
riarticolazione del controllo statale sulle dinamiche sociali;
- selezione di partner sociali per gestire questo processo sia tra le
tradizionali organizzazioni padronali e sindacali che mediante il
coinvolgimento di tutte le forze disposte a giocare un ruolo "responsabile"
nella transizione in atto;
- esclusione dalla dialettica politica e sociale di tutti coloro che si pongono
fuori dal coro sia attraverso la repressione diretta che, soprattutto, mediante
la loro delegittimazione politica e culturale.
In buona sostanza, il modello neocorporativo si può presentare come una
democrazia sociale realizzata nel mentre assume compiuti caratteri
oligarchici.
Non essendoci noi mai eccessivamente illusi sui caratteri delle democrazie
realmente esistenti e, per la verità, sulla democrazia in quanto tale,
potremmo considerare questa deriva come un'ennesima riprova di quanto andiamo
dicendo da molto tempo.
Ritengo, però, che questo tipo di autocompiacimento sia poco fine e non
colga l'essenziale per quel che riguarda lo scontro politico e sociale in
atto.
Il punto è, a mio parere, questo: la massima parte delle espressioni
politiche e sindacali delle classi subalterne e lo stesso senso comune dei
lavoratori salariati tende a considerare lo "stato sociale" e, quindi, il
corporativismo democratico, come il massimo obiettivo per il quale battersi.
Potremmo considerare questo dato di fatto irrilevante e porre l'accento sulla
speranza che un'auspicabile ripresa delle lotte potrebbe dare spazio a
posizioni più radicali.
A mio parere le lotte, nel loro farsi, sono la migliore critica pratica delle
posizioni delle classi dominanti e della stessa sinistra statalista ma da
ciò a pensare che la lotta in quanto tale spazza via consolidate
pratiche e convincimenti ce ne passa.
La critica dei limiti che lo statalismo, presente nel nostro stesso campo di
riferimento sociale, pone anche all'azione di oggi è, di conseguenza, la
miglior preparazione a situazioni più vivaci.
Questa critica, ovviamente, non manca nella nostra attività militante ma
è spesso, è bene riconoscerlo, rituale, schematica, poco attenta
alle questioni specifiche che i settori di avanguardia della classe vanno
concretamente affrontando.
Si tratta, quindi, non di modificare le nostre posizioni tradizionali ma di
articolarle, di porle alla prova delle questioni che andiamo affrontando, di
costruire campagne politiche e sindacali su poche, semplici e chiare questioni
che ne rendano evidente la fondatezza e, oserei dire, la ragionevolezza.
Su quest'ordine di problemi sarà, credo, necessario tornare a breve e
con valutazioni più precise su alcune questioni centrali.
Per ora ritengo che la vicenda della legislazione contro gli scioperi dei
lavoratori dei trasporti sia paradigmatica: alla normativa liberticida si
accompagna la costituzione di un "Consiglio Nazionale dei Trasporti e della
Logistica" del quale faranno parte governo, sindacati di stato, padronato
pubblico e privato del settore, padronato pubblico e privato interessato al
problema dei trasporti.
Un buon esempio, direi, di fascismo democratico che vede i sindacati
alternativi del settore in comprensibili difficoltà e il mitico
Coordinamento Macchinisti Uniti (COMU) oscillare paurosamente.
Credo, per concludere, che dovremo impegnarci nella direzione, certo, di una
critica severa dell'opportunismo e dei limiti di settori di lavoratori che pure
hanno dato, in un recente passato, buona prova di sé ma penso anche che
solo nell'ambito di una campagna politica e sindacale sulla questione del
diritto di sciopero, di assemblea, di organizzazione queste critiche siano
utili e produttive.
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