![]() Da "Umanità Nova" n.2 del 24 gennaio 1999 Brasile. Il carnevale è finitoL'esplosione della crisi brasiliana ha dato la stura ad una nuova ondata di panico economico e finanziario. Il Brasile non è la Russia, che ha un basso grado di integrazione nell'economia mondiale, un peso ancora quasi trascurabile negli scambi e nel debito internazionale e un deterrente quasi esclusivamente militar-nucleare. Il Brasile è l'ottava potenza industriale del mondo, rappresenta il 50% del Pil latino-americano, ha qualcosa come 150 miliardi di debiti esteri (con una rilevante presenza delle banche americane, ma anche spagnole e tedesche), è la forza trainante dell'intero Mercosur e area di sviluppo strategico per aziende come Fiat, Volkswagen , Parmalat, Pirelli. Le bizze del Cossiga locale, l'ex presidente Itamar Franco (attuale presidente del Minas Gerais) hanno fatto crollare la situazione. Dichiarando la moratoria del debito del suo stato per 90 giorni nei confronti del governo federale, Franco ha innescato la miccia di una bomba a orologeria. Le difese del real hanno ceduto, il governatore della banca centrale si è dimesso ed il governo è stato costretto a dichiarare la libera fluttuazione della propria divisa, accettando una svalutazione neui confronti del dollaro che già nel primo giorno ha superato il 30%. Il Bovespa, l'indice della Borsa di San Paolo, ha prima accusato il colpo, perdendo in 3 giorni il 35%, poi si è ripreso in modo spettacolare riguadagnando in un solo giorno il 33%. Il lungo inferno brasiliano durava peraltro dai primi di dicembre, quando il Parlamento si è rifiutato di votare i tagli alle pensioni dei dipendenti pubblici su cui puntava il draconiano piano del Presidente Cardoso, che ha vinto le elezioni ad ottobre con i soliti metodi e che rappresenta, più che i suoi elettori, in Fondo Monetario Internazionale. Si calcola che da inizio dicembre a metà gennaio abbiano lasciato il paese circa 30 miliardi di dollari, una cifra quasi pari a quella che il FMI aveva faticosamente stanziato e promesso al governo in cambio dei suoi poderosi sforzi di risanamento del bilancio pubblico, e che ammontano a 41,5 miliardi di dollari (circa 80.000 miliardi di lire). L'intera strategia del governo esce così battuta: la politica di intransigente difesa del cambio, con tassi di interesse al 30%, è servita soltanto a dilapidare le riserve valutarie del paese, ed il piano di svalutazione controllata nei confronti del dollaro è fallita, esattamente come era fallita quella dell'Indonesia e della Thailandia. I mercati e i capitali hanno votato contro il governo, abbandonando precipitosamente il paese al ritmo di un miliardo di dollari al giorno. L'impatto della crisi brasiliana è stato violentissimo su tutte le borse del mondo e su tutti i titoli obbligazionari dei paesi emergenti: a patire di più sono state le aree a più forte presenza in Sudamerica (es. la borsa di Madrid e Lisbona), ma anche Milano, Parigi e Francoforte, per non parlare delle banche più esposte come la Comit, Paribas, Dresdner, Deutsche, Banco Santander, Bilbao y Vizcaja, ecc. , e naturalmente anche i bond di Argentina, Messico, Venezuela. Come sempre avviene in questi casi, è difficile distinguere tra causa ed effetto, tra motivo reale e ragione speculativa. Le borse erano reduci dalle follie di inizio anno, dunque poteva starci bene una buona occasione di alleggerimento. La speculazione realizza i suoi guadagni più forti nelle fasi di forte convulsione, nella concitazione degli avvenimenti e delle notizie, nel fuoco della battaglia. Un crollo delle borse occidentali dell'8%, come è avvenuto in certi momenti della seduta del 14 gennaio, può rendere in poche ore il 40-50%, con pochi spiccioli e l'uso accorto dei derivati. Un ribassista con i nervi saldi può portarsi a casa, in una giornata così, 20 volte il rendimento di un bot ad un anno. Sull'interpretazione della crisi brasiliana si sono distinte due linee di pensiero, con poche sfumature intermedie. Da una parte ci sono gli ottimisti, che leggono la crisi carioca come l'ultimo sussulto del ciclo negativo iniziato nell'estate del 1997, con la crisi del sud-est asiatico, poi dell'Estremo Oriente nell'autunno (Hong Kong e Corea), poi dell'Indonesia nella primavera 1998 e infine la Russia in agosto. Secondo questa lettura, il Brasile rappresentava un elemento di instabilità con la sua insostenibile determinazione nel difendere la parità di cambio del real: aver accettato di svalutare significa porre fine all'incertezza, consentendo un cambio di linea, cioè tassi d'interesse più bassi e ripresa dello sviluppo, tenendo a bada naturalmente inflazione e deficit di bilancio. Saremmo così alla fine di una fase di alta volatilità dei mercati finanziari, vista anche la situazione asiatica (che dovrebbe aver già toccato il punto minimo ed essere in fase di consolidamento) e la sostanziale tenuta del ciclo economico negli Stati Uniti, il vero ed unico motore dell'economia mondiale. Dall'altra parte ci sono i pessimisti, che sono assai più scettici sulle capacità di recupero dell'economia mondiale. Si tratta anzi di prepararsi alla recessione che avanza a passo di carica, che investirà sicuramente tutti i paesi nel 1999 e che può forse dare qualche respiro alla fine del prossimo anno. Secondo questa lettura, gli interventi a disposizione dei politici, degli economisti e dei banchieri centrali sono ormai esauriti. I continui ribassi dei tassi d'interesse, che hanno dato fiato all'economia e alle borse in questi ultimi 6/7 anni, con particolare intensità negli ultimi 6 mesi, sono ormai storia del passato. I tassi d'interesse non possono calare ancora e quindi non ci sono più strumenti disponibili, restando nel campo dell'ortodossia neo-liberista. Il basso costo del denaro ha inondato le borse di liquidità, ma nulla dimostra che abbia fatto ripartire il ciclo economico o l'accumulazione. Permane una forte sovra capacità produttiva, mentre il basso costo delle materie prime costringe i paesi indebitati a produrre sottocosto per pagare il servizio del debito, inondando le economie sviluppate di prodotti troppo competitivi. L'enorme aumento della produttività del lavoro non si traduce in più alti salari e dunque domanda pagante. L'equilibrio è molto lontano dall'essere raggiunto, la volatilità è destinata a crescere e le bolle speculative diventeranno sempre più frequenti e violente. Ben sapendo che solo il futuro può assegnare i voti e sputare sentenze, credo sia importante rilevare alcune certezze: 1) la strategia del FMI continua a rivelarsi fallimentare per i popoli del sud del mondo, tagliati fuori dallo sviluppo ma globalizzati dalla recessione, stravolti da iniezioni di capitali (che prendono il volo alla prima occasione), usati, sfruttati, rapinati e gettati in un angolo quando crolla l'affidabilità finanziaria dei loro dittatori; 2) l'intreccio tra economia reale ed economia di carta assume caratteri sempre più inquietanti: la stagnazione disperante della prima non impedisce alla seconda di prosperare e di crescere a ritmi travolgenti, per poi schiantarsi di botto lasciando sul terreno molte più vittime tra gli operai e i morti di fame, che tra i manager della City. 3) la polarizzazione sociale che si dà a livello planetario raggiunge vette inesplorate: ho letto da qualche parte che i 225 maggiori patrimoni personali su scala mondiale comprendono ricchezze pari a quelle del 47% più povero del pianeta. Io credo che prima o poi qualcuno alzerà la mano per chiedere se tutto questo è giusto. Renato Strumia
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