![]() Da "Umanità Nova" n.2 del 24 gennaio 1999 D'Alema l'ultraliberaleCome è, credo, noto il contratto nazionale di lavoro non è affatto, di per sé, una conquista dei lavoratori salariati ma si può considerare come uno degli elementi che definiscono un compromesso fra capitale e lavoro, per un verso, e come un modo per garantire un ordinato funzionamento del modo di produzione capitalistico, per l'altro. Il fatto stesso di definire un contratto nazionale di categoria garantisce ai sindacati istituzionali uno spazio importante, appunto, di contrattazione e alle organizzazioni padronali la possibilità di regolare il conflitto sociale e, soprattutto, la concorrenza fra le singole imprese. Dal punto di vista dei lavoratori salariati si tratta, al massimo, di uno strumento che definisce dei diritti e delle retribuzioni minime, retribuzioni che solo l'iniziativa diretta di classe può accrescere se la situazione generale lo permette e diritti che vanno difesi ed estesi sempre sulla base del conflitto sociale. In poche parole, dal nostro punto di vista il contratto nazionale è un limite da forzare e non l'orizzonte della nostra azione e questo è tanto più vero in una fase come l'attuale che vede sempre più spesso contratti a perdere. Parrebbe, paradossalmente, che Massimo D'Alema leader dei DS e presidente dei consigli dei ministri abbia abbracciato il nostro punto di vista, almeno se ci teniamo ad alcune sue recenti dichiarazioni. Su "La Repubblica" di mercoledì 3 gennaio ha, infatti, affermato che: "Il contratto nazionale di lavoro sarà superato dai fatti e sempre più la difesa del salario avverrà dove si produce ricchezza e cioè nelle aziende e nei distretti produttivi". Vittoria Sivo, la giornalista che lo ha intervistato nel merito rileva che: "È una vera rivoluzione nel sistema contrattuale italiano quella che Massimo D'Alema preconizza come conseguenza dell'ingresso nella moneta unica e con livelli di inflazione europei." Nella stessa intervista il nostro rileva che questo risultato si sarebbe potuto raggiungere almeno in parte nel corso della trattativa che ha portato, a fine 1998, al "Patto per lo sviluppo e l'occupazione" se la CGIL non fosse stata restia a questo passaggio e se la Confindustria fosse stata più determinata nel perseguirlo. Può, a questo punto, valere la pena di ragionare sull'ipotesi che caratterizza la proposta di D'Alema.
Il ragionamento è, per certi versi, semplice: - con la riduzione dell'inflazione non vi è molto da contrattare a livello nazionale. Effettivamente, se si parte dal presupposto che gli aumenti contrattuali devono essere inferiori all'inflazione, l'affermazione ha una sua interna logica; - il salario, nel modello "europeo" non deve essere più una variabile dipendente della politica economica nazionale ma deve essere affidato alla dialettica fra impresa o gruppo di imprese e lavoratori; - il salario stesso non deve essere occasione di conflitto ma, al contrario, dipendere dall'andamento dell'impresa.
A questo punto emergono due limiti istituzionali dell'ipotesi dalemiana che vale la pena di segnalare: - D'Alema parla di "preoccupazioni, peraltro legittime, espresse dalle parti sociali timorose che un eccesso di articolazione potesse far perdere loro le leve della politica dei redditi". Se traduciamo l'affermazione in italiano, il nostro vuole dire che l'apparato sindacale e, per certi versi, la Confindustria temono che lo spostamento della contrattazione al livello aziendale li privi della loro funzione di mediazione sociale. Insomma, i sindacati operai e padronali vogliono salvare, almeno, i posti di lavoro dei propri funzionari;
- la Confindustria sarebbe stata indecisa su quale dei due livelli (azionale o aziendale) puntare per poi scegliere lo status quo. È interessante notare come il presidente del consiglio bacchetti un padronato timido e conservatore e indossi le vesti del liberale vero che si lamenta dello statalismo del padronato.
Dobbiamo, a questo punto, spendere due parole in difesa della Confindustria. È vero che Fossa aveva posto all'ordine del giorno il superamento dei due livelli di contrattazione ma tutti sanno che i sindacalisti, quando trattano, chiedono spesso qualcosa di diverso rispetto a quello che vogliono effettivamente e sembra difficile immaginare che questa banale verità sia ignota all'onorevole D'Alema che è uomo di mondo anche se, a quel che ne sappiamo, non ha fatto il militare a Cuneo. La Confindustria ha portato a casa finanziamenti massicci e un patto sociale volto a garantire fortemente gli interessi padronali e, di conseguenza, se ne è tenuta soddisfatta. Per quel che riguarda la contrattazione nazionale, basta guardare all'andamento del contratto dei metalmeccanici per comprendere come il padronato si ritenga in una posizione ottima visto che rifiuta di fare anche le modeste concessioni richieste da CGIL-CISL-UIL e che, magari, utilizzerà la mobilitazione eventuale dei sindacati metalmeccanici per ottenere nuove concessioni dal governo. Sul medio periodo, invece, D'Alema ha, probabilmente, ragione nel senso che la struttura contrattuale italiana si adeguerà a quella delle altre democrazie industriali europee con la piccola differenza che mancano in Italia alcuni ammortizzatori sociali, come il salario minimo garantito, che caratterizzano Francia, Germania e Gran Bretagna e che non sembra che il governo di centro sinistra abbia la volontà, la capacità, la forza per fare anche solo una politica blandamente riformista. In questa situazione, sembra che il modello reale di riferimento del capitale italiano sia ben diverso da quello dell'Europa centrale e consista nell'intreccio di elementi corporativi di governo della politica economica con la tendenza a garantire la concorrenzialità delle "nostre" imprese grazie ai bassi salari e alle ridotte garanzie sociali. Basta pensare che una recente ricerca ci informa che il 57% delle assunzioni nel 1997 sono state fatte con contratti "anomali" (a tempo, part time, come lavoratori autonomi per conto terzi ecc.) e che nel 1998 la tendenza si è accentuata per comprendere quale sia la strada reale che segue il capitalismo italiano. Per tornare al presidente del consiglio, sembra quasi inutile porre l'accento sul fatto che, nella migliore tradizione stalino togliattiana. la sua conversione al modello occidentale è eccessiva, totale, caratterizzata da venature integraliste. D'altro canto, non è nostro interesse condurre il nostro eroe sulla retta via ma, casomai, proseguire nel difficile ma importane compito di operare per la ripresa dell'opposizione sociale nonostante e contro la politica della sinistra statalista. CMS
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