![]() Da "Umanità Nova" n.2 del 24 gennaio 1999 Fabrizio De AndrË. Anche se ora lo avete assoltoNon può essere stata che di sgomento la reazione di chi ha ascoltato, seguito e amato Fabrizio De Andrè, alla notizia, piovuta quel lunedì mattina come una tegola. Tanto più che si trattava di un artista ancora in gran forma e in piena attività, che fino a pochi mesi fa calcava i palcoscenici di tutta Italia, e che aveva in cantiere ancora tante idee che purtroppo non potrà più realizzare. La perdita è incalcolabile, sia per la scena culturale, sia per quelle tre o quattro generazioni che sono state segnate, in termini di cuore e di coscienza, dalle sue opere. Ma Fabrizio (e in questo articolo parleremo essenzialmente dell'artista, indipendentemente dalle scelte dell'uomo) è stato qualcosa di più di un grande poeta, musicista ed esecutore. Fabrizio è stato in primo luogo un cantore dell'Umanità, nella sua accezione più completa, reale e palpitante. Una umanità espressa nelle gioie e nei dolori, negli slanci e nelle frustrazioni della vita, quella vera, degli individui, e non di quella in cartapesta che costruiscono quotidianamente i media. Chi scrive ritiene riduttive le interpretazioni andate per la maggiore sui giornali e fra gran parte dei critici, fondate sulla assunzione di De Andrè come "voce dei vinti" e del "lato oscuro della vita". Fabrizio, originale interprete dei suoi tempi, ha sempre affrontato con anticipo e coraggio tutti i principali temi sociali e culturali degli ultimi 40 anni, spiazzando quasi sempre la critica, ma facendosi amare per la straordinaria capacità di esprimere i valori di cui la sua arte è stata coerente portatrice. Perché la "voce degli sconfitti" non è che lo strumento di una precisa scelta di campo all'interno di una scelta globale: la scelta di essere sempre e comunque dalla parte degli oppressi, degli umiliati e degli esclusi, per condannare e ridicolizzare gli sfruttatori, i potenti e gli oppressori di qualsiasi genere. Per questo la sua opera resta, e ci auguriamo rimarrà per i secoli a venire, sensazionale affermazione di una idea che la contamina dall'inizio alla fine: quella libertaria.
Fabrizio De Andrè scrive le sue prime canzoni ai tempi, certo non sospetti, della sua frequentazione dei circoli anarchici, e poi di quella bohéme genovese dalla quale usciranno a loro volta cantautori come Paoli, Lauzi e il mai dimenticato Luigi Tenco, altra significativa, anche se tormentata, figura di libertario. Questi pezzi, ispirati ad una personale rielaborazione delle poetiche di Jacques Brel e in particolare di Georges Brassens, sono uno dei tanti fulmini che in quegli anni scuotono il cielo plumbeo dell'Italia conformista e bacchettona uscita dalla Ricostruzione. Fabrizio interpreta alla sua maniera la contestazione, cantando di prostitute, barboni e piccoli malavitosi (Città Vecchia, Il Fannullone, Via del Campo, Bocca di Rosa, Delitto di Paese...), deride la storia e la morale tradizionali (Carlo Martello, Il Testamento), introduce tematiche antimilitariste (La guerra di Piero, La Ballata dell'eroe). Subisce per questo la censura della RAI, troppo impegnata a trasmettere Sanremo e varietà, ma non se ne avrà mai troppo a male. Una parte di queste canzoni viene riunita nel primo Lp, VOLUME UNO, del 1967, dove alcuni brani prefigurano già le tematiche della successiva svolta in direzione del concept-album, metodo assolutamente innovativo in Italia, tramite il quale sostituisce gradualmente la singola "canzone" a se stante, con prevalente accompagnamento di chitarra, della tradizione di Dylan e Brassens, con lavori più complessi sia concettualmente sia musicalmente. Da questo momento comincia a ricercare la collaborazione di una serie di musicisti (e ne troverà di validissimi) sia per fare i concerti sia per fare gli LP. Soddisfa così sia la sua concezione "preromantica" dell'arte come possibile lavoro di équipe, e quel perfezionismo che lo renderà autore, con una continuità nel tempo senza paragoni, di lavori tecnicamente ineccepibili. Come dicevamo, Preghiera in gennaio, scritta per commemorare l'amico Tenco, prefigura le atmosfere cupe e invernali di TUTTI MORIMMO A STENTO del 1968, primo concept-album, dotato di un grandioso arrangiamento orchestrale, in cui riecheggia la morte vista attraverso la poetica di François Villon, ma trovano spazio un Girotondo antibellicista e una condanna dell'egoismo dei privilegiati, che sono in questo caso "banchieri, pizzicagoli, notai/ coi ventri obesi e le mani sudate/ coi cuori a forma di salvadanaio." Il successivo VOLUME TRE è una nuova raccolta (vi compare Marinella) arricchita da fortunate traduzioni da Brassens, fra cui Il Re fa rullare i tamburi e Il gorilla, nelle quali la critica al potere costituito ha i toni fortemente satirici del re che ordina al marchese di consegnargli la sua donna, e del giudice che dopo aver ordinato una esecuzione viene sodomizzato da un primate in forzata astinenza. E' del 1970 uno dei capolavori assoluti, LA BUONA NOVELLA, rilettura della favola evangelica sulla scorta del Protovangelo di Giacomo e di un pensiero spavaldamente anticlericale, grondante umanità per le vittime del potere religioso, da Maria rinchiusa bambina nel tempio, agli uomini uccisi "in nome di un Dio", alle "fedeli umiliate da un Credo inumano/ che le volle schiave già prima di Abramo". E quando "il potere vestito d'umana sembianza/ ormai ti considera morto abbastanza", sulle croci "per chi disertò per rubare/ la più grande per chi guerra insegnò a disertare", il ladrone Tito, un filino incazzato con i dieci comandamenti, non può che concludere che "io senza legge rubai in nome mio/ quegli altri nel nome di Dio". La ricerca poetica va di pari passo con quella musicale, che è insieme espressione di emozioni, e sperimentazione di nuove forme e introduzione di nuovi strumenti, fra cui il sitar. Nel 1971 NON AL DENARO NON ALL'AMORE NE' AL CIELO, ispirato alla Antologia di Spoon River, è ancora una volta poesia che ricerca e si snoda all'interno di un caleidoscopio umano con i suoi amori, dolori, follie, utopie. La tematica antimilitarista (Dormono sulla Collina) e quella anticlericale (Un giudice, Un Blasfemo) vanno ancora a braccetto, e viene il dubbio che la moderna antipsichiatria debba qualcosa a canzoni come Un Matto. STORIA DI UN IMPIEGATO del 1973 pare più lucida, come analisi politica, di tante pubblicazioni che all'epoca mettevano in giro certi gruppi parlamentari ed extraparlamentari. In una successione di accordi più classicamente cantautorali a musiche più rockeggianti (quasi alla Jethro Tull) il protagonista rivive l'esplosione rivoluzionaria del Maggio Francese, vive la frustrazione per il suo sradicamento sociale e generazionale, ha tre sogni che prefigurano un concetto passato poi alla storia come riflusso", e attraverso la liberazione del gesto individuale (la mitica Il Bombarolo), il conseguente carcere, la bellissima lettera di addio alla fidanzata in Verranno a chiederti del nostro amore, giunge alla consapevolezza, all'interno di un'esperienza collettiva, "che non ci sono poteri buoni". Interessanti, nel Sogno n. 2, le considerazioni sulla "urgenza di potere" di certi "rivoluzionari". In CANZONI del 1974 Fabrizio riprende la sua prima poetica, quella dei tempi de La Città Vecchia, arricchita da una serie di traduzioni da Bob Dylan, Leonard Cohen, e da un Brassens che gli regala un inno all'amore, Le Passanti, ed uno al pensiero laico, Morire per delle Idee. Questa delle traduzioni è un'arte a cui De Andrè ha rivendicato ogni dignità in alcune dichiarazioni di poetica esplicita che partono da Benedetto Croce. Il VOLUME OTTO vede nella prima parte la sua collaborazione con De Gregori (La cattiva strada, Le storie di ieri), nella seconda la profondità introspettiva di Amico Fragile, la dolcezza di Oceano, Nancy e Giugno '73. In RIMINI, ricco LP realizzato nel 1978 con Massimo Bubola, Fabrizio torna sulla allegoria sociale (Coda di Lupo, Parlando del naufragio della London Valour), ma introduce, con Zirichiltaggia e Volta la Carta, un repertorio popolare che tanta importanza avrà nella svolta successiva. Passano il rapimento da parte dell'Anonima e il doppio dal vivo con la PFM, ed è la volta del cosiddetto "L'INDIANO", ancora con Bubola, ancora sugli esclusi, quelli della società sarda, ma anche gli esclusi per eccellenza della storia moderna, gli indiani d'America (classica e Fiume Sand Creek) in un intrigante gioco di rimandi. Del 1984 è il capolavoro della nuova svolta, CREUZA DE MA, che inaugura una stagione di ricerca sui linguaggi e gli strumenti musicali del Mediterraneo, condivisa con Mauro Pagani, Ivano Fossati e Cristiano De Andrè, che anticiperà tutte le successive riscoperte del patrimonio etnico e dialettale. Ma Fabrizio non si limita a recuperare, crea, ed in un genovese che a quanto pare "non capivano neanche i genovesi" canta le sue terribili storie. E' della Repubblica Marinara il mozzo Cicala che rinnega il Cristianesimo ed arricchendosi con i musulmani non ha fatto altro che "bestemmiare Maometto al posto del Signore"; è del `600 il "brutto stronzo di un portatore di Cristo" che si indigna pubblicamente contro le prostitute ma poi fonda su di loro la sua ricchezza e i suoi sollazzi, è dei giorni nostri il bambino morto nel bombardamento di Beirut. Sono senza tempo la solitudine della Pittima e del marinaio di Da a me riva, come pure la sensualità di Jamin-a. E' etnica anche la seconda parte de LE NUVOLE. La prima, forse, farà passare alla storia quello che era l'Italia degli anni 80 (Novecento, Don Raffaè, la Domenica delle Salme). L'ultimo capolavoro, ANIME SALVE, è a tutti gli effetti una prosecuzione di questa ricerca musicale, che accompagna storie di rom, di transessuali, di adolescenti innamorati, di pescatori-filosofi e di conturbanti fanciulle di colore. Ma anche storie di indignazione su cosa gli esseri umani possano fare ai loro simili, che riecheggiano le tragedie balcaniche, ma anche quelle che avvengono quotidianamente nelle nostre periferie, mentre nel frattempo "recitando un rosario di ambizioni meschine/ di millenarie paure, di inesauribili astuzie/ coltivando tranquilla l'orribile varietà/ delle proprie superbie la maggioranza sta", anche perché già sanno che "alla parte che manca si dedica l'Autorità." Con liberatori "giorni di finestre adornate, canti di stagione/ anime salve in terra e in mare", prese a prestito da Alvaro Mutis.
"Fra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi/ per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità". Beh, se questo era l'intento, Fabrizio ha fatto traboccare più di un vaso. Che dire ora che l'impenitente libertario è studiato nelle antologie, è stato benedetto dal vescovo di Genova e dai politici, è incensato ad ogni angolo dai mai dimenticati "Intellettuali d'oggi..."? Si può dire che, al di là di ogni tentativo di recupero istituzionale o buonista del personaggio, le opere di De Andrè sono ancora lì, pronte a portare il loro messaggio nel cuore e nelle orecchie di altre generazioni, stimolando una coscienza che potrebbe non far piacere a chi oggi è convinto di aver ricondotto al proprio seno il figliuol prodigo. Qualcuno che non ha mai scritto nulla, ma che può essere considerato un Autore nel senso più completo del termine, ha detto che "portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori". Fabrizio ha donato a questo mondo parole ed emozioni. Non sapremo mai come ringraziarlo. Federico Ferretti
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