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Da "Umanità Nova" n.3 del 31 gennaio 1999

Centri sociali
Per una critica radicale della Carta di Milano

Le manifestazioni nazionali del 26 settembre a Milano e del 12 dicembre a Roma hanno ormai reso evidente la frattura determinatasi tra i centri sociali; definitivo elemento di separazione è stata la cosiddetta Carta di Milano, attorno a cui una parte - minoritaria ma comunque considerevole- dei centri sociali è andata a tutti gli effetti costituendosi come soggetto politico, sotto i riflettori compiaciuti di gran parte dei mezzi di informazione.

In tali scadenze, gli anarchici scesi in piazza non hanno avuto difficoltà a sapere dove collocarsi, ma è altrettanto importante cercare di approfondire e sviluppare la critica antiautoritaria sull'intera questione.

Questo è un tentativo in tal senso.

Premessa "storica".

Non si può parlare di centri sociali senza aver preventivamente fatto un minimo esercizio di memoria sulla loro nascita e il loro recente passato. Tralasciando alcune esperienze particolari nate attorno al '77, l'attuale realtà - la cosiddetta seconda generazione- dei centri sociali nacque nella seconda metà degli anni '80, sotto la cappa culturale del regime "craxista" e tra le macerie della sinistra extraparlamentare degli anni '70.

In questa esperienza, inizialmente metropolitana ma presto diffusasi a macchia di leopardo per tutt'Italia, confluivano soggetti, pratiche, percorsi, appartenenze e intenzioni, estremamente eterogenei ed anche legati a particolari situazioni locali; dentro i c.s.a. si tentava infatti una ricomposizione sociale di settori proletari marginalizzati, espulsi, disgregati a seguito della ristrutturazione post-fordista dei processi produttivi e della geografia urbana; entravano così in contatto le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria sopravvissute, residuati "bellici" del '77, le pre-esistenti lotte per la casa e il movimento punk che era arrivato in Italia con qualche anno di ritardo, nel tentativo di ricostruire un'identità antagonista nuova che non avesse più come fattore centrale e costituente un riferimento ideologico preciso quali il comunismo o l'anarchismo in tutte le loro varianti, ma il metodo dell'autogestione e la pratica dell'occupazione di spazi, come punti di partenza per una critica radicale della società.

Così, per circa un decennio, si è assistito al sorgere di un numero ancora incalcolabile di collettivi, rivendicazioni, vertenze e lotte finalizzate alla conquista di uno spazio, contrassegnati da un altrettanto vertiginoso susseguirsi di occupazioni, sgomberi, ri-occupazioni e interventi repressivi, anche notevolmente violenti, da parte del potere costituito.

Questo magmatico fenomeno sociale, intersecandosi con le varie "Pantere" studentesche e con l'opposizione alle centrali nucleari di quegli anni, velocemente avrebbe assunto un'imprevista importanza divenendo, o soltanto venendo avvertito come il principale soggetto politico collettivo in grado di incrinare la pace sociale apparentemente blindata, di fronte alla mancanza di prospettive in cui era imprigionata un'estrema sinistra sempre più triste, chiusa su sé stessa ed incapace di rinnovarsi di fronte alle trasformazioni culturali in atto, alla nuova composizione di classe ed alle modifiche della struttura delle città.

Si trattava, evidentemente, di una "responsabilità" e di una "rappresentanza" politica non voluta dai centri sociali - anche se al loro interno di certo qualcuno ha assunto tale "investitura" con un certo compiacimento- costretti loro malgrado a fare da supplenti al resto del movimento d'opposizione, nonché delle varie organizzazioni rivoluzionarie e dei vari partitini vetero-comunisti, capaci di svolgere verso certi settori giovanili e proletari soltanto un'opera parassitaria di proselitismo.

Per cui molte accuse, vecchie e nuove, nei confronti dell'esperienza dei centri sociali, accusati "da sinistra" di non essere abbastanza rivoluzionari, appaiono sostanzialmente improprie in quanto i centri sociali non sono nati con l'obiettivo di fare la rivoluzione, ma più semplicemente per vivere come dei luoghi di aggregazione non - mercificata, sperimentazione culturale e autorganizzazione sociale extraistituzionale, tanto da farli definire da qualcuno come le "Case del popolo post-fordiste".

Questo interessante quanto spregiudicato paragone non appare peraltro storicamente infondato se ci si riferisce soprattutto al sorgere delle prime Case del popolo, agli inizi del secolo. Quelle esperienze, poi non per caso stroncate col ferro e il fuoco dallo squadrismo fascista, erano infatti punto di riferimento per tutti i proletari di un quartiere o di un paese che avevano materialmente "autofinanziato" e sovente "autocostruito" tali strutture, spesso usate come sede dalle associazioni di mutuo soccorso, provviste di biblioteche popolari, dove vi si faceva cultura, musica, ballo e teatro sociale anche d'avanguardia come quello futurista.

Diverso, salvo qualche pregevole eccezione, sarebbe stato il percorso delle Case del popolo ricostruite nel secondo dopoguerra, quando il PCI le avrebbe presto utilizzate come proprie "cinghie di trasmissione", in cui chi non aveva la tessera del partito in tasca era guardato con sospetto anche se le frequentava solo per bere un bicchier di vino in compagnia.

Dieci anni dopo.

Vale quindi la pena ricordare i tentativi di coordinamento nazionale che, tra il 1989 e il '90, interessarono praticamente tutte le occupazioni e i centri sociali, balzati alle cronache dopo il primo sgombero del Leonka e la susseguente vasta mobilitazione contro la repressione. Tale fase "unitaria" ben presto naufragò per il peso delle diverse provenienze e matrici ideologiche, presenti in seno al "movimento", e delle rispettive pretese egemoniche che, non di rado, andarono a produrre polemiche e contrapposizioni estranee alla stragrande maggioranza dei giovani compagni/e dei centri sociali che non avevano alle spalle precise identità o militanze politiche.

Questo tipo di logica non influì pero più di tanto nello sviluppo e nella nascita impetuosa di alcune centinaia di centri sociali, più o meno okkupati, ormai presenti capillarmente in tutte le regioni d'Italia e in particolare nelle principali metropoli (Milano, Torino, Roma); semmai in tale separazione, specialmente dopo l'aspro dibattito apertosi sul modo di rapportarsi alle istituzioni locali e sulle ipotesi di "legalizzazione" degli spazi liberati, si andarono "coaugulando" alcune tendenze che sostanzialmente hanno continuato a convivere e a scazzarsi fino ad oggi.

Di conseguenza, essendo venuto meno il carattere spontaneo e di base iniziale, pochissime esperienze hanno mantenuto nel tempo una loro identità autonoma e una presenza "mista" al loro interno, mentre dentro ogni singola situazione i c.s.a. si sono sempre più trasformati in aggregazioni culturalmente e politicamente omogenee, o quantomeno affini, con derivanti atteggiamenti di chiusura, tra il settario e il tribale, nei confronti dei soggetti "non allineati" e dei centri sociali non imparentati.

In seguito a questo processo, durante l'ultimo decennio, sono quindi venute a configurarsi -schematizzando brutalmente- 4 aree principali: una comunista, più o meno "movimentista" ma irriducibilmente contraria ad ogni ipotesi "socialdemocratica", che collega l'esperienza del centro sociale (o popolare) alla lotta di classe e/o alla costruzione del "partito"; una "controculturale", su posizioni definibili come alternative-libertarie e vicina alle teorie comunitarie di Hakim Bey sulle TAZ (Zone Temporaneamente Autonome), attenta a comportamenti non-omologati, espressioni artistiche e corporee, etc. ma poco incline ad esprimere conflittualità sociale; una "anarco-punk", etichettata dalla stampa come squatter, che rigetta l'identificazione coi centri sociali e rifiuta ogni ipotesi di normalizzazione; infine una "post-autonoma", realtà politica a tutti gli effetti, dialogante con i partiti e le istituzioni a livello sia locale che nazionale, che si riconosce appunto nella cosiddetta Carta di Milano e che ha contribuito a dare vita al supplemento de Il Manifesto "Carta dei cantieri sociali".

Un passo avanti e tre indietro.

La cosiddetta Carta di Milano, scaturita da un'assemblea tenutasi il 19 settembre '98 presso il Leoncavallo, appare come il punto di convergenza di una serie di percorsi intrapresi dopo il movimentato settembre 1994 soprattutto da tre realtà: il Leoncavallo a Milano, alcuni centri sociali di Roma (Corto Circuito, Forte Prenestino...) e alcuni del Nord-est facenti capo al Melting.

A queste si sono poi aggiunti alcuni centri sociali liguri e marchigiani.

Questi percorsi, seppur differenziati, sono stati in questi anni contraddistinti dalla comune volontà di ridefinirsi e ricollocarsi, stabilendo tutta una serie di rapporti con la "sinistra" politica (PdS-DS, Rifondazione, Verdi, Il Manifesto, il partito del Nord-Est di Cacciari) e con il volontariato, sia laico che religioso. Contemporaneamente, venivano localmente aperte trattative con i sindaci (anche di destra, vedi Albertini a Milano) al fine di essere riconosciuti politicamente e legalmente tutelati per il servizio e l'utilità sociale espressi da tali esperienze, mentre questi centri "occupati" conoscevano una sostanziale trasformazione interna dando vita a cooperative sociali e vedendo una crescente "commercializzazione" dei concerti e degli spettacoli - sempre meno underground - che vi venivano organizzati.

Tale "svolta" politica - favorevolmente commentata e amplificata da parte dei giornali e dell'informazione TV- è stata quindi presentata dagli stessi soggetti collettivi come conseguenza di una elaborazione teorica che dichiarava conclusi i tempi eroici della rivoluzione comunista e riconosceva come nuovo interlocutore un'indefinita "società civile" ritenuta protagonista attiva di una possibile trasformazione della società, archiviando in questo modo non solo la storia e l'idea di lotta di classe, ma liquidando anche la figura post-moderna dell'operaio-sociale.

A questo passaggio si accompagnava anche la scoperta, invero un po' tardiva e distorta, del federalismo e del municipalismo, visti non tanto come forme radicalmente alternative di organizzazione sociale, ma piuttosto come un "nuovo" modello di partecipazione democratica in grado di incidere sugli indirizzi politici generali, a partire dalla dimensione locale, attraverso un rapporto interattivo con i sindaci e le amministrazioni comunali.

Simile indirizzo veniva inizialmente ipotizzato con una certa cautela e dissimulato sotto la bandiera del neo-zapatismo, ma soprattutto dopo l'avvento dei governi di centro-sinistra vedeva una notevole accelerazione, tanto da giungere appunto alla Carta di Milano che, senza dedicare nemmeno un rigo di critica contro il governo -antiproletario come tutti quelli che lo hanno preceduto-, rivolge a questo una serie di richieste in stile sindacale (riconoscimento politico e legale delle occupazioni di aree dismesse, reddito di cittadinanza, amnistia, diritto alla libera circolazione, depenalizzazione dei reati legati all'esercizio dei diritti negati e all'uso di sostanze stupefacenti, scarcerazione dei detenuti malati) finalizzate ad una "riforma conflittuale del welfare".

Un'ambigua utopia.

In questa formula -la riforma conflittuale del welfare- vi è concentrata tutta l'ambiguità di tale utopia, a partire dal "giochetto" linguistico che abbrevia "welfare state" in "welfare", quasi nel tentativo freudiano di allontanare da sé l'ombra dello Stato.

Infatti in questa trovata dialettica riaffiora tutta quanta la storica divergenza tra "riformisti" e "rivoluzionari": si può cambiare la società, liberare la vita, abolire gli attuali rapporti di sfruttamento, etc. senza critica radicale, senza sovversione dell'esistente, senza distruzione del dominio, senza rivoluzione?

Questo è il nodo che torna al pettine.

Evidentemente l'ideologia borghese, in decenni di rimozione sistematica dell'identità di classe e della memoria collettiva, alle soglie del 1999 è giunta al punto di convincere alcuni dei suoi più dichiarati antagonisti non solo che la rivoluzione è anacronistica, sbagliata e impossibile, ma che da domani si può attuare una "riforma conflittuale" del sistema economico capitalistico.

E la cosa assume le sembianze della tragicommedia quando vediamo come il potere mondiale (FMI, AMI, G 8, etc.) nega quotidianamente persino le briciole del welfare (benessere) a milioni e milioni di dannati della terra.

Qualcuno potrà dire che i rapporti di forza sono quelli che sono, che nell'epoca di Internet è assurdo pensare di poter assaltare il "Palazzo d'Inverno" ed altre mille ragionevolissime cose, peraltro non dissimili dalle argomentazioni con cui da ogni parte ci vogliono convincere dell'ineluttabilità del capitalismo; ma il fatto che la rivoluzione sociale necessiti indiscutibilmente di nuovi piani sovversivi non può farla ritenere una questione superata.

Non solo infatti questa, per circa tre quarti dell'umanità, rimane l'unica speranza di vita ma anche nel nostro "Primo Mondo" conferma la propria attualità nei confronti di un sistema economico e di comando, governato dal "pensiero unico" e del tutto blindato contro tutto quello che nella società rimane fuori dal suo controllo.

Per questo è il riformismo ad avere sempre meno margini di gioco, mentre si aprono insondati spazi rivoluzionari.

Uscire dal ghetto?

La Carta di Milano si apre con una frase sulle cui implicazioni non si rifletterà mai abbastanza: "Non riconosciamo questo diritto finchè questo diritto non riconoscerà noi!"; cosa significa una simile affermazione se non che si è disposti a legittimare il potere in cambio di un riconoscimento politico della propria esistenza?

Perchè mai dovremmo intavolare trattative con chi esercita l'oppressione e la violenza proprio attraverso il diritto?

Quali orizzonti "liberati" si prefigurano con una simile dichiarazione, quando tutti sappiamo che lo Stato, ogni Stato, si fonda proprio sul diritto?

E una simile questione non riguarda soltanto chi vuole "discutere con la parte avversa", ma riguarda la libertà di tutti, perchè finisce per dare in pasto alla repressione i soggetti, le situazioni e i centri sociali che d'ora in avanti non vorranno accettare tale "dialogo".

Di fronte alla crisi di fiducia e rappresentanza, testimoniata anche dal crescente astensionismo elettorale, che i partiti e le istituzioni si trovano ad affrontare, le amministrazioni locali, il ruolo dei sindaci, le forme di decentramento, partecipazione e autogoverno concesse alla "gente" rimangono per il potere politico forse l'ultima spiaggia per mantenere il proprio controllo su un "sociale" sempre più sfuggente, estraneo e genericamente avverso.

Proprio come succede, in materia d'ordine pubblico, con la valorizzazione e l'impiego massiccio dei vigili urbani e dei vigilantes volontari perchè della polizia e dei carabinieri nessuno si fida più.

Questa, signori, è l'essenza della socialdemocrazia.

Comprendere ciò appare quindi fondamentale per definire una pratica antagonista e autogestionaria che crei le premesse di una trasformazione rivoluzionaria e non contribuisca invece, seppur indirettamente, alla "governabilità", facendo "uscire dal ghetto" non tanto i centri sociali ma i partiti e le istituzioni statali.

Così come è altrettanto importante prendere in seria considerazione i rapporti, i metodi, la socialità che si vivono e si sperimentano dentro i centri sociali -aspetto su cui la Carta di Milano non si sofferma neanche fugacemente- perchè proprio su queste cose e sulle dinamiche della microfisica del potere che si gioca la possibilità di prefigurare ed affermare un'alternativa antiautoritaria.

Si parli quindi pure di federalismo, ma in antitesi con le ipotesi di riforma federale dello Stato, e si sperimenti il municipalismo purchè sia una forma egualitaria e davvero autonoma di organizzazione sociale, attraverso un percorso che delegittimi e mini l'autorità istituzionale, dal sindaco al governo, rifiutando ogni integrazione e complementarità con essa.

Di qui passa, e non solo per i centri sociali, il confine tra un possibile progetto di liberazione e il paradosso di un conflitto compatibile.

F.A.I. - Venezia
Dicembre 1998


Memoria antagonista

Quando a Padova c'erano ancora gli autonomi

Il problema rimane quello di costruire qualcosa che vada in direzione della strada che ci siamo scelti tanto tempo fa, non è quello di inventarci strade che vadano nel senso opposto, quello che abbiamo sempre cercato di fare, e questo sta alla base di qualsiasi tipo di scelta, cioè di costruire conflitto, radicalizzarlo e di dargli un senso che sia quello della trasformazioe radicale dello stato di cose presenti, attrraverso l'uso della forza, attraverso l'illegalità, attraverso l'antistituzionalità. (...) Noi dobbiamo sperare, e lavorare per movimenti come quello dei giovani francesi che hanno sfasciato Parigi per quattro, cinque volte bruciando tutto, questo è il problema del reddito, non trasformare i Centri sociali in birrerie-cooperative con centocinquanta disoccupati che si autosfruttano per cinquecentomilalire al mese e si ridistribuiscono la miseria; c'è una ricchezza in questa società che aspetta solo di essere strappata con la forza dei movimenti e dei conflitti. (...) E il primo nemico che abbiamo di fronte è lo Stato, che oggi si assume un ruolo diretto di comando proprio rispetto al bisogno di reddito, basti pensare a tutte le leggi finanziarie.
(...) L'altra cosa è che il mantenimento dell'illegalità è fondamentale, elemento fondante di qualsiasi tipo di percorso dei Centri sociali, il mantenimento non tanto dell' "aura di illegalità", non un formalismo dell'illegalità ma una sua corposa sostanza: illegalità e antistituzionalità nelle forme e nei modi che l'intelligenza collettiva di questo tempo e di questa fase suggerisce, sono elementi che non possiamo mandare affanculo così, perchè sono fondanti dei percorsi, sia dell'identità che del progetto possibile. (...) Detto questo, resta la questione del rapporto Centri sociali-istituzioni: cerchiamo di applicare un po' di buon senso. Fissiamo alcuni cardini che sono: l'illegalità, l'antistituzionalità, l'autogestione e l'occupazione, come metodo di riappropriazione e come messaggio politico, indicazioni che lanciamo ogni qualvolta entriamo in uno spazio e lo rivendichiamo come collettivo (...) Detto questo ricordiamoci che siamo sempre in libertà provvisoria...
Centro Sociale PEDRO. Padova 1995

(Tratto da Centri sociali: che impresa. Oltre il ghetto: un dibattito cruciale. Castelvecchi ed. Roma 1995)



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