|
Da "Umanità Nova" n.7 del 28 febbraio 1999
Scuola pubblica
Andare avanti per non tornare indietro
Nel pieno centro di Buenos Aires, di fronte al palazzo sede del parlamento
argentino, una grande tenda accoglie gli insegnanti che, a turni settimanali,
si danno il cambio in uno sciopero della fame che prosegue imperterrito da
quasi 700 giorni. L'obiettivo di questa lotta esemplare è la difesa
della scuola pubblica, che, anche in Argentina, vuol dire non solo maggiori
stanziamenti, ma soprattutto difesa di un modo di trasmissione dei saperi
libero da confessionalismi di sorta pur se imbevuto dal laicismo di Stato.
Ovunque nel mondo la scuola pubblica è oggetto di un attacco senza
precedenti. Il suo funzionamento, ma soprattutto la sua funzione è messa
sotto accusa dalle classi dirigenti, dai confessionalismi dei vari colori, che
premono per un suo smantellamento o, nella migliore delle ipotesi, per un suo
ridimensionamento nel quadro di una ristrutturazione formativa che vede gli
interessi delle aziende e delle chiese , pur conflittuali tra loro, in
posizione preminente.
E' evidente che questo attacco si inscrive all'interno di quell'onda lunga
cosiddetta neoliberista che ha investito con la sua politica e la sua cultura
gli assetti sociali permeati dallo statalismo dominante, sia nella versione
socialista che fascista, per un lungo arco di secolo. Il ridimensionamento
degli Stati nazionali non è estraneo a questa situazione, così
come la rottura del patto sociale che stava alla base di quelle forme
garantiste di riproduzione della forza-lavoro ha favorito processi a cascata
nella riduzione dei campi d'interesse del cosiddetto welfare state', tra cui
quello dell'educazione.
Tutti dovremmo ricordare che prima della nascita degli Stati moderni, il
compito di educare ed istruire era delegato alla chiesa (soprattutto ai
Gesuiti) ed in minima parte ai laici. L'educazione era un fatto di nobili,
chierici ed alto-borghesi.
Solo con la nascita dello Stato nazionale si osserva lo sviluppo di una scuola,
organizzata e finanziata dallo Stato stesso, che ha lo scopo fondamentale di
creare una lingua nazionale, di preparare i suoi funzionari, di riprodurre i
quadri delle classi dirigenti, di omogeneizzare i loro interessi nella cornice
della difesa dei 'valori' culturali della 'Nazione'.
Una scuola fondamentalmente classista, in conflitto con quei poteri non
direttamente assimilabili a quello statale, come quello clericale (e questa
è la storia della scuola dell'Italia sabauda, almeno fino al fascismo),
chiusa in se stessa e nei propri egoismi di censo. Successivamente il
totalitarismo dominante ha modificato questo modello, ampliando lo spazio dei
processi di alfabetizzazione, necessari alla formazione di un popolo (o di una
classe) che doveva fare proprie le volontà del potere assoluto. Solo con
lo sviluppo di forme di governo di tipo democratico parlamentare, basate sul
pluripartitismo, la scuola viene investita da un processo profondo di
trasformazione teso alla trasmissione di un insieme di saperi ben piè
vasti, con un approccio piè dinamico. Non si tratta piè infatti
di assicurare un'alfabetizzazione di base, in grado di far comprendere il
significato delle parole sulle cartoline precetto, ma di arricchire il
vocabolario del moderno proletario fino a fargli capire il funzionamento di
macchine e tecnologie decisamente piè complesse di una zappa.
L'innovazione tecnologica ha spinto in questa direzione ben piè
dell'utopia democratico illuminista che auspicava la diffusione
dell'universalità delle conoscenze all'universalità dei
cittadini, ma che si fermava di fronte alle invalicabili barriere di classe,
che solo una rivoluzione sociale poteva mettere in discussione. La
statalizzazione del movimento operaio, ad opera delle correnti socialiste
autoritarie, ha contribuito ad alimentare il mito che la conquista del potere
avrebbe comportato il raggiungimento di tale utopia nella realizzazione dello
Stato universalista, nel quale ogni cittadino avrebbe potuto accedere
criticamente alle molteplicità delle correnti di pensiero e delle
conoscenze scientifiche, esercitando il diritto-dovere dell'istruzione.
Lo Stato, assumendosi l'onere dell'educazione, doveva quindi provvedere ad
eliminare qualsiasi tipo di ostacolo alla realizzazione di tali obiettivi e
promuovere il processo educativo ad elemento fondante di una comunità
umana basata sulla pari opportunità di accesso al sapere.
Come sia andata la storia è cosa assai nota. La scuola di Stato non ha
mai rappresentato l'universalit^, non è mai stata in cima dei pensieri
delle classi dirigenti, è sempre stata subita dalle classi subalterne ed
ha sempre rappresentato un terreno di scontro tra le varie tendenze del potere.
Feudo democristiano per decenni, governato da una burocrazia ossificata,
è riuscita a sopravvivere e a rinnovarsi, sia pure molto parzialmente,
solo grazie alle lotte che studenti e lavoratori della scuola hanno sviluppato
per una sua effettiva universalizzazione, per una sua reale trasformazione in
una scuola pubblica, una scuola cioè dove i processi di apprendimento si
sviluppano a partire dai bisogni individuali e collettivi e non imposti dalle
leggi del profitto e del potere. Solo nelle rotture inferte nel suo corpo
selettivo e meritocratico, sostanzialmente classista, si può
intravedere l'ombra di una tale trasformazione, non certo nelle convulsioni
burocratiche degli specialisti del settore.
Un'ombra appunto che l'assalto neoliberista e clericale, pur da punti di vista
differenti, si è incaricato di dissolvere nella riproposizione del
modello antico: una scuola al servizio di interessi privati e parziali, quali
quelli aziendali e confessionali, basati sull'unilateralismo, la competizione,
l'esclusione. Un assalto che occorre ovviamente rispedire al mittente. Il modo
con cui farlo non credo però sia così scontato.
Da parte di molti c'è infatti la tendenza di reagire puramente assumendo
come valida l'equazione 'scuola pubblica=scuola di Stato' limitandosi ad una
critica della sua insufficienza, ma dando per valida la sua impostazione di
fondo. C'è in questo atteggiamento una preoccupazione resistenziale e
difensiva, che se pur comprensibile, mi pare limitante e al limite
contraddittoria. In fondo, in fondo, c'è la convinzione della natura
progressiva dello Stato democratico.
Noam Chomsky, nel suo "Mete e visioni" del 1997 evidenzia molto bene questo
pensiero: "Le mie mete a breve termine consistono in una difesa e addirittura
in un rafforzamento di elementi dell'autorità statale, elementi che, pur
essendo sotto certi fondamentali aspetti illegittimi, hanno una
necessità critica, proprio ora, al fine di impedire quei bei congegnati
sforzi che sono attuati per 'far arretrare' i progressi conseguiti con
l'estensione della democrazia e dei diritti umani. L'autorità dello
stato è sottoposta, attualmente, a un severo attacco nelle
società piè democratiche, e ciò non perchè in
conflitto con la visione libertaria. Piuttosto il contrario: perchè
offre (una debole) protezione ad alcuni aspetti di quella visione."
La difesa della scuola di Stato rientrerebbe quindi in questa impostazione
sollevando il paradosso di un impegno rivoluzionario a difesa dello status quo,
ma al di là dei paradossi rimane il fatto che si danno attacchi laddove
la situazione è piè debole. Credo sia chiara a tutti
l'entità dello schieramento in campo che va dalle Chiese alla destra
economica e politica, dai diessini agli ex-democristiani, passando
trasversalmente per il sindacalismo collaborazionista. A tutto questo si
contrappongono quei lavoratori della scuola autoorganizzati che fanno
riferimento al sindacalismo di base, gli studenti che hanno occupato le scuole,
pezzi della sinistra ex-comunista, i centri sociali, i costituzionalisti puri,
gran parte dell'arcipelago anarchico: uno schieramento sostanzialmente
antagonista, ma decisamente non maggioritario, nè in termini qualitativi
né quantitativi. Uno schieramento che ha dovuto registrare la dura
sconfitta lombarda e le avvisaglie gravissime degli accordi emiliani. Uno
schieramento a cui i rimasugli dell'area azionista e repubblicana, con Bocca in
testa, non contribuiranno certo a dare forza nè chiarezza.
In questo contesto di estrema debolezza la forza non può che derivare
dalla capacità di ricreare un grande movimento offensivo che ponga come
suo obiettivo la trasformazione radicale del sistema di trasmissione dei
saperi. A fronte di una disaffezione, se non di una insofferenza, diffusa nei
confronti della scuola di Stato, che inficia ogni forma di difesa efficace
occorre rispondere con una progettualità 'alta' che ponga in primo piano
il bisogno individuale di conoscenza e il suo utilizzo collettivo in chiave
sociale. Non partiamo da zero: moltissime intelligenze e volontà si sono
spese in questi anni dentro e fuori la scuola di stato frangendosi infine
contro le mura della burocrazia scolastica. Innumerevoli progetti per una
scuola realmente pubblica - e cioè aperta, libera, non selettiva,
autogestita - sono accatastati nelle cantine scolastiche. Si tratta di
riprendere un filo interrotto, una riflessione spesso di segno marcatamente
libertario, di affondare le mani in una sperimentazione di base che ridia senso
e spessore ad un'attività fondamentale per il presente ed il futuro
dell'umanit^: quello della trasmissione critica della conoscenza che nessuno
stato potrà mai garantire.
M.V.
| |