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Da "Umanità Nova" n.11 del 28 marzo 1999

Dibattito
Realizzazione del piacere e militanza anarchica

Note intorno al legame fra realizzazione del piacere e militanza anarchica

Capita a me come, credo, ad altri compagni di domandarmi come si spieghi il fatto che, in presenza di molte e dichiarate simpatie per una critica libertaria dell'esistente, simpatie che si spingono spesso sino all'esplicita dichiarazione di adesione all'anarchismo, il movimento anarchico, inteso come un assieme di militanti, resti una realtà relativamente modesta, dal punto di vista della consistenza quantitativa.

Al fine di evitare equivoci, non ritengo che la consistenza quantitativa del movimento anarchico tolga o aggiunga nulla alla condivisibilità dell'anarchismo come visione del mondo e, di conseguenza, non pongo il problema se l'anarchismo sia superato, smentito, in altri termini, falsificato.

Faccio un paragone solo apparentemente provocatorio: la verità di una rivelazione religiosa o la condivisibilità di una teoria scientifica non dipendono dal numero di coloro che l'accettano ma dalla possibilità di verificarle sulla base di criteri dichiarati e tali da rendere conto delle contraddizioni e delle potenzialità dell'ipotesi presa in considerazione.

L'anarchismo, come critica del potere, manterrebbe il suo senso e la sua condivisibilità anche se non vi fosse un solo militante anarchico e sarebbe suscettibile di critica teorica anche se gli anarchici militanti fossero milioni.

L'anarchismo al quale mi riferisco non è, di conseguenza, la teoria anarchica ma quello che si può definire anarchismo realmente esistente o, per semplicità, anarchismo storico.

Per restringere il campo della riflessione, ritengo opportuno fare un ulteriore considerazione.

Mi è capitato di notare che quando qualche esponente della cultura ufficiale si dichiara o viene definito anarchico provo un certo qual fastidio e che altrettanto avviene ad altri compagni.

L'esempio più noto, credo, di questo anarchismo della mutua è, in Italia, Indro Montanelli. Ritengo evidente che Montanelli si ritiene anarchico in quanto anticonformista e che, di conseguenza, il suo anarchismo consiste in uno stile letterario ed in un atteggiamento originale, almeno a suo parere. Visto che l'anticonformismo, di per sé, è un attributo che non si può negare a nessuno è evidente che lo sforzo che alcuni compagni fanno per denunciare la confusione fra anarchismo ed anticonformismo, reale o presunto, è lodevole ma condannato allo scacco. Che ci piaccia o meno, chiunque si ritenga o sia ritenuto originale potrà continuare a definirsi anarchico o sarà definito in questo modo e la cosa non farà gran danno se si prescinde dal fastidio che può provocarci.

Più interessante è lo scarto che, come ricordavo, cogliamo fra la crescita di interesse per la critica libertaria del capitalismo e dello stato in settori della sinistra sociale e l'attuale consistenza del movimento anarchico specifico.

Le ragioni dell'attuale simpatia nei confronti della tradizione libertaria sono, credo, evidenti:

- il crollo del blocco a capitalismo di stato e le modalità di questa stessa implosione sono stati una smentita difficilmente contestabile non solo della pretesa del bolscevismo di aver realizzato una fuoriuscita in senso progressivo dal modo di produzione capitalistico ma anche della presunta efficacia della proposta organizzativa del bolscevismo stesso come modello eguale e contrario rispetto alla struttura capitalistica e statale;

- i cugini concorrenti dei bolscevichi, i socialdemocratici, ottengono una vittoria apparente nello scontro che li ha opposti per decenni ma, nel contempo, risulta evidente l'inefficacia della loro proposta di fuoriuscire dolcemente dal modo di produzione capitalistico attraverso una serie di graduali riforme o, almeno, di attenuarne gli effetti più distruttivi per quel che riguarda le condizioni di vita delle classi subalterne. Se di riformismo si parla oggi, si tratta di un riformismo al contrario che sposta, attraverso l'uso spregiudicato della macchina statale, risorse dalle classi subalterne a quelle dominanti, dai lavoratori alle imprese;

- in questo contesto, la componente libertaria della nuova sinistra sviluppatasi negli anni `60 e `70, componente che si è concretizzata in comportamenti, stili di vita, tensioni antiburocratiche più che in una precisa proposta politica, può, almeno parzialmente, emanciparsi dalla subalternità alla sinistra statalista che l'ha, in gran parte, caratterizzata in passato. In altri termini, sembrerebbe possibile il passaggio da un generico ma interessante libertarismo che si è concretizzato nell'affermarsi di una sensibilità per la libertà sessuale, l'emancipazione femminile, la difesa dei diritti delle minoranze etniche e delle culture subalterne, la definizione di un rapporto non distruttivo con l'ambiente ecc., ad una esplicita individuazione del comunismo libertario come proposta politica alla quale riferirsi;

- elementi interessanti, dal nostro punto di vista, potrebbero rinvenirsi anche nell'antistatalismo generico che anima movimenti antifiscali ed antiburocratici attualmente egemonizzati da forze di destra. L'insopportabilità del controllo burocratico sulla vita quotidiana delle classi subalterne, lo scontento per la crescente pressione fiscale sui salari, l'esigenza di valorizzare le realtà produttive e sociali locali contro i grandi centri di potere statali, finanziari, industriali, potrebbero dare nuovo alimento alla pratica ed alla proposta anarchica.

Sulla base quanto si è sinora affermato è legittima la domanda del perché il movimento anarchico specifico gioca un ruolo inferiore a quello che parrebbe possibile in un contesto apparentemente favorevole.

Come limitato e personale contributo a questo lavoro, proporrò una domanda che ritengo semplice e radicale.

Supponendo che gli anarchici non nascono come Minerva dalla testa di Giove ma sono essi stessi il prodotto di dinamiche storico sociali determinate, credo che un anarchico sia un individuo che si caratterizza per l'intreccio fra una rivolta, impegnativa e significativa dal punto di vista personale, contro l'ordine sociale esistente e l'incontro con la tradizione dell'anarchismo così come se la trova di fronte sia nella forma di una serie di elaborazioni teoriche che in quella di proposte di azione politica e sociale.

Per motivi di spazio, mi limito a rilevare che non vi è una tradizione dell'anarchismo ma un assieme di proposte e di elaborazioni a volte fra di loro differenti altre volte esplicitamente contrastanti.

Quella nella quale mi riconosco è la critica radicale del potere statale e della proprietà privata dei mezzi di produzione e della conseguente lotta per la realizzazione del comunismo libertario.

L'accettazione di questa ipotesi comporta il condurre un'azione metodica e quotidiana che si articola su diversi piani:

- la critica teorica dell'attuale ordine sociale, critica che non si riduce alla rivendicazione di una tradizione ma che, fondandosi sulle conquiste che da questa tradizione ci vengono tramandate, si propone di utilizzare tutte le conoscenze che lo sviluppo della scienza della produzione, nella loro forma capitalistica ed autoritaria, e della prassi delle classi subalterne ci pongono a disposizione per rendere più efficace la lotta anticapitalista;

- la partecipazione, nelle forme che la situazione che ci troviamo di fronte, rende possibili alle lotte sociali, sindacali, culturali che le classi subalterne conducono e lo sforzo di rendere queste lotte più ampie, meglio coordinate, più radicali;

- la costruzione di ambiti di collaborazione e di confronto fra compagni che, condividendo lo stesso programma generale, agiscono in contesti immediati diversi e con diverse modalità di azione al fine di rafforzare la nostra azione, valorizzare le esperienze particolari, garantirci reciproca solidarietà ecc..

Questa complessa attività, la militanza in una parola, prevede l'assunzione di compiti, responsabilità, impegni che proseguono nel tempo e che non corrispondono necessariamente ai nostri interessi immediati.

D'altro canto, la rivolta soggettiva contro l'istituito parte, in primo luogo, dal rifiuto di sacrificare la nostra vita concreta a regole, impegni, obblighi che ci vengono imposti dalle gerarchie dominanti ma che sono interiorizzati nel senso comune delle classi subalterne sotto la forma del ricatto morale.

Il rifiuto di sottostare al ricatto morale è, in altri termini, una condizione necessaria anche se non sufficiente dell'assunzione dell'anarchismo come punto di vista sulla società.

Questo rifiuto si lega all'affermazione della propria volontà di godere pienamente della propria vita senza altri vincoli che non siano gli accordi che liberamente accettiamo, accordi precisi e determinati e non impegni per la vita o che, comunque, eccedano quanto esplicitamente ci si è impegnati fare o a non fare.

La militanza realmente esistente, invece, non risponde ai caratteri dell'accordo reiterato ogni volta che si decide un'azione comune.

Per fare un solo esempio. il nostro giornale esce tutte le settimane e non è pensabile che sia affidato alla buona volontà dei redattori ed alla loro disponibilità ad occuparsene nei ritagli di tempo e secondo il loro piacere immediato.

Piaccia o meno, la militanza, anche quella anarchica ed, anzi, in particolare quella anarchica, richiede un impegno lontanissimo dall'idea corrente di spontaneità per un motivo che non viene, a mio parere, valutato sempre a fondo.

L'adesione, per fare un paragone, ad un partito parlamentare non prevede affatto un significativo impegno personale da parte dell'iscritto al partito stesso visto che il finanziamento è garantito dallo stato e da contributi privati legati ai favori che il partito può garantire ai finanziatori, l'attività corrente è affidata a funzionari pagati a questo scopo, c'è un evidente scambio fra assunzione di responsabilità da una parte e carriera e potere dall'altra. Se anche un partito parlamentare riesce a suscitare militanza dal basso ne fa, comunque, una risorsa magari importante ma secondaria a fronte di quelle che gli sono garantite per via istituzionale. Basta, a questo proposito, leggere il bilancio dei partiti per rilevare quanto incassano dallo stato e quanto dal tesseramento o da altre entrate derivanti da militanza e ricordare che il bilancio è inattendibile perché nasconde finanziamenti illegittimi o, comunque, segreti.

Un'organizzazione che si pretende rivoluzionaria, in genere, e quella anarchica, in particolare, vive invece solo dell'attività dei militanti e tende a richiedere, implicitamente, un impegno notevole.

Risulta difficile tenere assieme l'affermazione del diritto al piacere nella sua immediatezza con l'efficacia dell'azione militante necessariamente strutturata sulla base della definizione di obiettivi immediati, intermedi e a lunga scadenza.

Il principio del piacere e della piena libertà individuale, affermato esplicitamente, rischia, ad essere buoni, di essere negato nei fatti con l'effetto di determinare una sorta di scissione fra militanti che assumono l'impegno politico come propria attività predominante e simpatizzanti che danno un contributo sporadico e casuale al lavoro collettivo.

Questa considerazione vale, a maggior ragione, per compagni che, avendo rotto con le organizzazioni autoritarie della sinistra statalista, sono particolarmente sensibili alla timore di vivere dinamiche simili a quelle che hanno criticato nel corso della loro evoluzione verso posizioni libertarie.

Ritengo, in estrema sintesi, che il paradosso che ho ritenuto di segnalare, in maniera necessariamente schematica, meriterebbe una discussione collettiva non solo e non tanto per il suo interesse teorico quanto per le ricadute pratiche che derivano dalle diverse soluzioni che vengono, più o meno consapevolmente, tentate.

Cosimo Scarinzi



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