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Da "Umanità Nova" n.11 del 28 marzo 1999

Letture

AA. VV., La democrazia del reddito universale, Manifestolibri, Roma, 1997, pp.224, L. 28000

I saggi che compongono questo libro convergono nell'analisi di ciò che si chiama, di volta in volta, reddito di cittadinanza, assegno universale o basic income. E' bene precisare, innanzitutto, il limite eurocentrico in cui si muovono gli autori; si tratta di un limite nel duplice senso del termine: oggettivo, in quanto gli autori discutono del loro spazio e del loro tempo storico, ossia le fasce deboli dei paesi ricchi del nord; soggettivo, in quanto gli autori trascurano, non necessariamente in modo colpevole o pregiudiziale, le condizioni nei paesi del sud del mondo, il che limita appunto le ipotesi e le tesi "universaliste" suggerite.

Tutto ciò ha, ovviamente, una motivazione: solo nei paesi industrializzati ad alta intensità di sapere e di capitali tecnologizzati si verifica quel collasso del lavoro vivo come intermediazione, luogo di intersezione tra numerosi scambi a livello diverso: lo scambio tra natura e cultura, lo scambio tra identità individuale e riconoscimento pubblico, lo scambio tra autonomia e integrazione, lo scambio tra sicurezza e liberà, lo scambio tra riproduzione individuale e riproduzione sociale.

La tesi sullo sfondo è che il lavoro - con tutto ciò che ne consegue: produzione, crescita, ridistribuzione - viene sostituito, con processi inconstanti, disomogenei, asimmetrici, sfasati temporalmente, ma tutto sommato viene eroso dalla tecnica, dalle tecnologie che o azzerano tendenzialmente il ricorso alla forza-lavoro quale la conosciamo, oppure la dislocano al di fuori delle fortezze eurocentrate dei paesi del nord, in quel sud del mondo dove lo sfruttamento del lavoro somiglia più al nostro passato (rivissuto in dimensione iperaccelerata e senza quindi i tempi necessari per declinare congiuntamente tutele politiche, sociali e normative), che al servilismo di ritorno di alcune tipologie di lavoro del cosiddetto "terziario arretrato" a noi consueti oggi.

Lavoro-salario-reddito è una catena che si infrange. Che forse si è già infranta. Gli autori ne discutono gli effetti, anche in rapporto ad altre strategie di contenimento di tali effetti, quale quello della riduzione dell'orario per consentire a tutti di prestare opera. Alcuni concepiscono una strategia binaria, di assegno universale come precondizione per ridurre gli orari, inserita cioè ina prospettiva più ampia delle singole proposte avanzabili, altri ne escludono la complementarità, sottolineando come la riduzione oraria non risolve il problema della rottura reddituale provocata dall'interruzione della dinamica trainante della crescita complessiva sui livelli occupazionali, e quindi sui salari e sui redditi (sia come incremento quantitativo, che come pubblicizzazione di servizi e infrastrutture grazie al prelievo fiscale).

E comunque il reddito di cittadinanza si configura non contrattualizzato tra le parti, bensì assegno per tutti a livello individuale prescindendo dalla ricerca d'occupazione. Il che non vuol dire disincentivare al lavoro perché il tenore di vita non sarebbe ricoperto interamente dal basic income, e tuttavia consente di sganciare la propria identità di cittadino (fruitore di diritti: servizi pubblici, oltreché obbligato a doveri) dal lavoro per incentrarsi sulla eguaglianza di appartenenza ad una comunità politica. L'assegno universale è infatti il prodotto di una politica, quella che afferma una differente qualità redistributiva del prelievo fiscale. Ciò riporta in ballo l'autorità statuale che dovrebbe attuare tale redistribuzione eludendo la crisi fiscale dello stato, denunciata dalla sinistra in tempi non sospetti ma contemporanei al neoliberismo degli anni '70 che portò al potere Thatcher e Reagan.

Avere come controparte i padroni o lo stato non fa una grossa differenza per la conflittualità sociale (nel senso che comunque bisogna lottare). Ma tale tesi va commisurata sugli effetti identitari che provocherebbe la scissione della vita di ciascuno dalla sua prestazione destinale d'opera (il suo contributo non parassitario al benessere collettivo tramite la coazione al lavoro), e sulla misura di uguaglianza formale di un assegno che rischierebbe di incrementare disuguaglianze di fondo frammentando ulteriormente la società (che alcuni dipingono come sostanzialmente duale, altri dei due terzi).

D'altro canto, tuttavia, chi respinge tale tesi per pronunciarsi a favore delle 35 ore o delle 20 ore addirittura, dovrebbe rendere conto della permanenza di tale coazione al lavoro come fatalità dell'umanità; dell'emarginazione di innumerevoli figure di lavoro autonomo para-servile per le quali tutto l'impianto lavorista non funziona più, incluso la sindacalizzazione e le norme giuridiche di tutela strappate nei conflitti degli anni '60; del farsi stato delle rappresentanze istituzionali dei sindacati operai e padronali che ormai costituiscono un alibi essendo parte integrante del sistema statuale di controllo e dominio.

Gli autori di questo testo (M. Bascetta, G. Bronzini, A. Caillé, A. Fumagalli, C. Offe, P. van Parijs e D. Purdy) discutono pro e contro, articolando sofisticate soluzioni per integrare ipotesi differenziate su strategie a loro volta diversificate relativamente alla centralità del lavoro nell'immaginario simbolico della società e nell'investimento riproduttivo della stessa. Ritengo che, dal mio punto di osservazione (più ideologico che addentro ai temi proposti), la prospettiva di un reddito di cittadinanza rompa un'assunzione destinale del lavoro inteso come vincolo dell'integrazione sociale e sistemica alla società occidentale. Ma ciò tuttavia dovrebbe collegarsi, ma non saprei come in astratto, a quanto accade nel resto del mondo in cui la concentrazione di manodopera non è coerente con l'egemonia di saperi e tecnologie in mano al mondo ricco del nord.

In fin d'analisi, comunque, il nodo del lavoro/non-lavoro assume una valenza che risponde non solo a (astratte) esigenze di ordine ideologico, ma soprattutto a progettualità alternative che sappiano ridisegnare un orizzonte di società senza dominio in cui individui e società si conciliano senza scambi perversi mediati da strumenti di asservimento quale, tra gli altri, il lavoro. Che poi ciò possa articolarsi gradualmente in tattiche riduzioniste dell'orario o in ipotesi di basic income sarà in parte affidato in parte a opzioni, in parte ai rapporti di forza nel magma della conflittualità sociale. Chi ha filo tesserà, si suole dire. Ma noi, verso dove ci piacerebbe andare?

Salvo Vaccaro



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