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Da "Umanità Nova" n.12 del 4 aprile 1999

Vergogna d'Europa

I testimoni raccontano del terrificante ululato delle sirene d'allarme che rompono la notte nei cieli della Jugoslavia: sono il preludio dell'attesa, terrificante, delle bombe.

I signori della guerra hanno dato la parola alle armi: un campo di profughi bosniaci alle porte di Belgrado è ora un cumulo di rovine dove giacciono i corpi delle vittime. Dove non erano arrivate le varie "pulizie etniche" sono giunti i bombardieri della NATO. Nel territorio della ex Jugoslavia, marcato da mille tragedie, assassini, torture, strupri, genocidi, la "soluzione" dell'ennesimo conflitto etnico e religioso viene affidata alle bombe. Gli echi non ancora sopiti dei massacri di Bosnia risuonano sinistri: l'orrore di ieri si fonde con l'orrore di oggi.

La follia nazionalista dei serbi e dei kosovari albanesi non può che essere accresciuta da questa "ingerenza umanitaria". Chi in Serbia come nel Kosovo si oppone al nazionalismo più esasperato non ha più alcuno spazio per far sentire la propria voce.

Pare impossibile che qualcuno possa credere alla favola che bombardare i serbi serva a difendere gli albanesi kosovari. Con ogni probabilità l'intervento militare della NATO non sarà servito che ad accelerare ed incrudelire il conflitto in Kosovo, moltiplicando le vittime tra la popolazione civile.

Il Kosovo si sta trasformando in un deserto: un quarto della popolazione civile ha già abbandonato le proprie case e sia la maggioranza albanese, sia la minoranza serba sono alla mercé della ferocia delle opposte frazioni armate. Duecentomila profughi kosovari albanesi, di cui quarantamila sono bimbi sotto i cinque anni rifugiati nei boschi al confine tra Albania e Kosovo si trovano bloccati senza cibo tra i campi minati da un lato e il fuoco serbo dall'altro.

Ma un altro deserto appare oggi quest'Europa, strettamente legata al potente "alleato" d'oltreoceano. Neppure ai tempi della guerra fredda gli Stati europei si erano mostrati tanto allineati alle scelte statunitensi. La Potenza degli americani si dispiega sui cieli della Jugoslavia ma stende un velo scuro sull'Europa intera. Le Nazioni Unite sono state esautorate persino della funzione di fornire copertura alle operazioni di "polizia internazionale": questa volta gli americani non si sono neppure presi la briga di chiederne l'assenso formale. Quel pallido fantoccio di Kofi Annan non ha potuto far altro che benedire con impaccio, a posteriori, l'attacco della NATO.

Un critico acuto, un uomo di destra come Luttwak, analizzando le possibili conseguenze dell'azione della NATO, ipotizzava un possibile allargamento incontrollato del conflitto nel caso che Milosevic, anziché agire da "politico" avesse deciso di comportarsi come l'eroe tragico di una moderna epopea serba. In altre parole se il governo serbo, invece di cedere ai bombardamenti nel giro di pochi giorni, decidesse di resistere ad oltranza, la guerra potrebbe assumere caratteristiche ben più dure e finirebbe con il coinvolgere anche altre regioni. Luttwak conclude cinicamente la propria riflessione, chiedendosi se "una provincia" valga un tale rischio. Con tutto il rispetto per un analista di pregio come Luttwak mi permetterei, pur concordando con le premesse, di dissentire radicalmente dalla conclusione. Nessuno, credo, può pensare davvero che la posta in gioco sia davvero una piccola regione montuosa, abitata da poveri pastori e contadini nel cuore dei balcani. A costoro non è affidato che il ruolo delle vittime su cui speculare a seconda della convenienza del momento.

Paradossi nella coreografia dell'orrore: a pochi giorni dall'inizio della guerra, mentre una tempesta di fuoco si sta abbattendo sulla Jugoslavia, i titoli dei quotidiani parlano di stragi e deportazioni nel Kosovo: l'attacco della NATO ha quindi provocato, o, quantomeno, accelerato, proprio quel che proclama di voler scongiurare, il massacro e la fuga in massa dei kosovari albanesi.

Ai tempi della guerra fredda, le due super potenze si sono fronteggiate senza mai giungere ad un conflitto diretto, ma nondimeno numerose guerre "calde" in varie zone del pianeta sono state il teatro tragico di uno scontro indiretto ma non meno feroce. Oggi gli Stati Uniti sono rimasti l'unica potenza militare su scala mondiale e due appaiono le principali esigenze che ne orientano nell'ultimo periodo le scelte: da un lato il bisogno di giustificare il mantenimento e l'ampliamento della spesa militare di fronte all'opinione pubblica americana, dall'altro la necessità di tenere sotto controllo gli "alleati" europei. Come sappiamo, dopo l'intervento in Iraq, nuovi fondi sono stati assicurati all'apparato militare statunitense che già da tempo premeva per un "ammodernamento" della propria macchina bellica. Nel contempo, su un piano più squisitamente politico, il sia pur debole e incerto protagonismo dell'Europa, sia pure indirettamente, necessitava di uno scossone. Portare la guerra nel cuore dell'Europa è per gli Stati Uniti il modo migliore per "mostrare i muscoli", per ricordare ai pavidi alleati chi è che comanda. Il buon D'Alema, pressato dalle isteriche grida dei cossuttiani, presi dal minacciare crisi di governo (ma, come sempre, poco propensi a dar seguito alle minacce) si è pateticamente impegnato a ricercare una "soluzione politica in tempi brevi". Non ci vuole la sfera di cristallo per capire che il baffettino nazionale si sta barcamenando nella speranza che il prender tempo possa tenere a galla la sua barca.

E' altresì significativo che rappresentanti dei governi europei, il 25 marzo, secondo giorno di guerra, si siano riuniti a Berlino per accapigliarsi sulle quote - latte, senza trovare una parola per indicare una possibile soluzione della guerra. Intendiamoci: non si tratta di negare la piena responsabilità dei governanti europei nel conflitto, ma di sottolineare come in questa, come in altre occasioni, gli Stati Europei abbiano aderito alla volontà di intervento bellico degli Stati Uniti, non per sostenerne l'imperialismo ma per tentare, almeno in parte, di non essere esclusi dal controllo di una regione di importanza nevralgica per i propri interessi. Dietro al consueto pretesto umanitario questa guerra è la conseguenza di un conflitto latente tra gli Stati Uniti ed i propri alleati europei, a loro volta divisi da interessi contrastanti nelle martoriate regioni balcaniche.

Con buona pace dei soliti amanti dell'economicismo a tutti costi, le anime tenere convinte che globalizzazione, transnazionalizzazione del capitale e vento neoliberista, implicassero un ridimensionamento degli Stati, questa vicenda dimostra chiaramente come, ben lungi dall'andare in congedo, la politica statuale si manifesta nella sua versione più cruda ed immediata, quella bellica.

In questi giorni molti cronisti ed analisti si sono cimentati nel tracciare una sorta di contabilità dell'orrore, elencando, come in uno spaventoso gioco di società, gli strumenti bellici messi in campo in questa guerra. Quel che colpisce di più, oltre al mostruoso potenziale distruttivo, sono i costi elevatissimi di queste armi, tanto elevati che il costo di un solo, sofisticatissimo missile rischia di essere di gran lunga superiore a quello delle fabbriche, case o installazioni belliche eventualmente colpite (le vite umane valgono poco, per cui non vengono, se non a fini propagandistici, calcolate). Ma, gli anarchici lo sanno bene, il dispiegarsi della potenza, il controllo militare sono obbiettivi di gran lunga prioritari per ogni forma di imperialismo e mettono in subordine qualsiasi considerazione di carattere meramente economico.

D'altro canto oggi la NATO, diversamente dal recente passato, sa che l'opposizione alla guerra all'interno dei paesi dell'Alleanza è ormai affidata a marginali settori dell'estrema sinistra e da un pacifismo ormai consunto. I pacifisti di ieri quasi in tutt'Europa siedono sui banchi del governo ed avallano le scelte di guerra.

In queste ore terribili, mentre dal territorio italiano partono in continuazione bombardieri diretti in Jugoslavia, per battere i signori della guerra occorre riprendere con determinazione e coerenza una critica radicale di ogni forma di nazionalismo e militarismo. I pacifisti che sventolano le bandiere serbe non sono poi tanto diversi da coloro contro cui manifestano. La riproposizione, oggi, di una prospettiva internazionalista, se non può più cullarsi nell'ingenuo ottimismo dell'universalismo umanista, deve altresì saper pensare e costruire la convivenza tra diversi come spazio aperto e plurale, libero e solidale. Senza stato, senza eserciti, senza nazionalismi. E, quindi, senza guerra.

maria matteo



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