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Da "Umanità Nova" n.12 del 4 aprile 1999

Commercio d'armi verso la Turchia
Giochi di guerra, giocattoli di morte

L'esplodere della questione balcanica con i bombardamenti Nato sulla Jugoslavia, il pesante coinvolgimento italiano - con i bombardieri americani che decollano in continuazione da Aviano e dalle altre basi militari italiane, la militarizzazione dell'Adriatico e della Puglia - riportano in primo piano e con forza tutte le questioni inerenti l'industria bellica e il mercato delle armi in quanto presupposti indispensabili per ogni avventura bellicista. Senza giocattoli di morte non si fanno giochi di guerra.

Gli scacchieri balcanico e mediorientale costituiscono un duro banco di prova per chiunque voglia esercitare, con un minimo di razionalità e lucidità, un'analisi critica dell'attuale fase di disgregazione dei residui equilibri yaltiani e del conflitto infra e interimperialista. Uno degli elementi di fondo tuttavia sembra essere questo: nella dissoluzione dei vecchi equilibri tra i due blocchi emergono vecchi conflitti mai sopiti, questioni nazionali irrisolte e pulsioni egemoniche a livello regionale. Tutto ciò si intreccia, molto modernamente, con il "conflitto" interimperialistico tra USA e Europa (i cui frutti più recenti sono rappresentati dall'intervento armato in Jugoslavia), il ruolo, da ridefinire dell'Alleanza Atlantica e i rapporti tra i suoi Stati membri.

In questo quadro la questione della minoranza kurda in Turchia (amplificata dal recente sequestro di Ocalan), della feroce repressione a cui è sottoposta dal governo turco assume un valore paradigmatico, specialmente se collegata agli interessi, molto materiali, delle grandi multinazionali dell'industria bellica dell'Occidente. Tentiamo di definire sinteticamente alcune coordinate di lettura.

Le spese militari della Turchia per il Kurdistan assorbono ormai più del 30% delle spese dello Stato turco e sono scaricate su una popolazione depressa economicamente (il reddito medio di un cittadino turco è circa un quarto di quello di un cittadino italiano) da una crisi evidenziata da un tasso d'inflazione intorno all'80%.

Il debito estero della Turchia si aggira sugli 80 miliardi di dollari. La maggior parte di questo non è però verso organismi finanziari internazionali o banche nazionali di altri paesi ma bensì nei confronti di istituti di credito privati. Ciò comporta un indebitamento con tassi d'interessi molto più elevati. Proprio questa enorme esposizione della Turchia nei confronti dell'Occidente spiega la tolleranza con cui una serie di iniziative unilaterali e spregiudicate della Turchia (vedi appunto il caso Ocalan) è stata accolta dai suoi partner della Nato. Questo attivo "protagonismo" della Turchia - pressata dall'indipendentismo kurdo, dalle difficoltà economiche, dalla perdita del ruolo privilegiato nella NATO e allettata dalle possibilità di egemonia su una vasta area balcanico-mediorientale - non poteva che tradursi in una grande spinta al rafforzamento del suo potenziale bellico. In puri dati numerici negli ultimi anni il numero di soldati delle forze armate turche è cresciuto di alcune centinaia di migliaia mentre le spese militari, che sono raddoppiate in questo stesso periodo, supera gli otto miliardi di dollari l'anno. La Turchia è ormai il terzo importatore mondiale di armamenti (periodo 1990-1997) e il primo del Mediterraneo (anche la Grecia è in questa classifica, il Mediterraneo orientale è una delle aree più armate del mondo). La tipologia delle importazioni è variegata: dai grandi sistemi d'arma (piattaforma più armamento ovvero, ad esempio nave più artiglieria più sistemi elettronici), ma anche pezzi di ricambio, munizioni, armi leggere, pezzi di ricambio nel settore elicotteristico, munizioni, ecc. Nel complesso, per il periodo indicato si tratta di circa 13 miliardi di dollari.

La Turchia sta diventando anche uno dei più grandi produttori d'armamenti. Dal 1990 c'è stato un salto di qualità nell'esercito turco: modernizzazione, acquisto di capacità logistiche e produttive. Una ristrutturazione indirizzata al controllo del territorio che è funzionale alla repressione antikurda, ma non solo a questa.

Uno dei partner privilegiati della Turchia nel commercio bellico è proprio l'Italia. Le esportazioni autorizzate italiane di prodotti bellici verso la Turchia ammontano (sempre per il periodo 1990-1997) ad oltre 400 miliardi di lire. Ciò ovviamente non esaurisce l'interscambio e la collaborazione bellica del nostro paese che sono elevatissimi nei confronti degli altri paesi europei, ma subito dopo viene la Turchia. Per l'industria bellica italiana è infatti più allettante (e profittevole) la vendita di sistemi d'arma completi che la collaborazione a progetti europei.

Proprio questa "attrattiva" del mercato turco spiega le compiacenze politiche del governo italiano nei confronti della Turchia. Il meccanismo materiale è questo: dal 1990 c'è una legge che dovrebbe regolamentare le esportazioni tramite la concessione di autorizzazione. Sui 400 miliardi autorizzati le esportazioni effettivamente avvenute sono state poco più di 200 miliardi. Ci sono dunque ancora più di 100 miliardi di armi che devono andare in Turchia. Crisi politiche possono portare all'interdizione delle esportazioni. C'è una capacità produttiva molto alta (se non sovradimensionata) da parte dell'industria bellica e un mercato che comanda. Dunque perdere una commessa significa perdere situazioni di potere nei processi di concentrazione in atto tra le aziende di produzione bellica. Si creano ipermonopoli nel settore armamenti così come in altri settori. Nelle fusioni le aziende portano il loro peso di commesse ed è quello che poi in definitiva decide chi comanda.

Apriamo una parentesi: diversa è la questione della riduzione dei posti di lavoro in questo settore. E' dal 1984 che c'è una riduzione di posti dovuta proprio a processi di globalizzazione e concentrazione economica. Nel decennio 1984-1993 si è passati da 127.000 addetti a circa 58.000. Ben prima, ad esempio, della questione Piaggio.

Per completare questo quadro, purtroppo assai sommario, bisogna rilevare che dai dati sulle esportazioni che abbiamo esposto sono escluse le tecnologie duali (prodotti "sensibili" ovvero per usi sia civili che militari). Le aziende italiani hanno esportato circa 10 miliardi di prodotti sensibili (macchine a controllo numerico, prodotti chimici ed elettronici) verso la Turchia. Mancano anche dati precisi su programmi di assistenza diretta dell'esercito italiano verso le forze armate turche, che comunque si possono quantificare in alcune decine di miliardi, così come molte transazioni interne all'Alleanza Atlantica.

Per concludere, questo piccolo tassello che abbiamo tentato di ricostruire nello scenario internazionale che sembra ormai fuori da ogni controllo, ci suggerisce, banalmente, che la barbarie imperialista - che in questi giorni sta dilagando molto vicino a noi - è sempre materialmente molto fondata. A noi trarne le conseguenze.

G.B.



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