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Da "Umanità Nova" n.13 del 18 aprile 1999

Verso l'invasione del Kosovo
Alibi umanitario. La guerra prosegue con altri mezzi

Una delle caratteristiche essenziali dei conflitti armati dalla fine dell'era bipolare (caduta del muro di Berlino nel 1989 e dissoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991) è che non si possono fare rientrare tecnicamente nella categoria della <<guerra>>, solitamente tra stati, dichiarata esplicitamente, la cui condotta è sottoposta alle "regole" delle convenzioni di guerra, che si scatena tra eserciti in divisa senza colpire i civili. Con molta probabilità, sino ad oggi, l'unica guerra di questa tipo è stata quella appena conclusa tra Perù ed Ecuador e quella in corso tra Etiopia ed Eritrea per un tratto di confine. Tutti gli altri conflitti armati sparsi numerosi nel mondo (Sierra Leone, Sudan, Afganistan, Angola, Congo e via dicendo) non sono tecnicamente delle guerre tra stati sovrani, ma miscele di guerre civili, conflitti etnici, guerre per procura (proxy wars), tensioni interne con picchi di violenza degni di guerra. Si continua pur sempre a morire, senza garanzie, anzi i civili sono ostaggi, vittime e bersagli inermi della ambizioni di potere delle élite al potere o in via di affermazione, per gestire l'attenzione politica ed economica se quel conflitto raggiunge la soglia di visibilità a livello mondiale. E per farlo la ricetta è una sola: sangue e carne martoriata da offrire in pasto alle telecamere, masse enormi di popoli in fuga dall'orrore.

Ecco che tale nuova fisiologia del conflitti armati fa assurgere la popolazione civile come una delle poste in palio, strategiche, del conflitto stesso. I diritti umani, con tutto ciò che ne consegue, sono parte di una strategia militare violenta, sottoposti a accelerazioni o frenate, a operazioni dissuasive, a manipolazioni disinformanti da parte della propaganda delle parti. I civili in fuga vengono trasformati coattivamente in un problema del conflitto stesso, la cui soluzione passa per la loro tutela o per il loro sterminio, non come effetto secondario di uno scontro bellico, ma come migliore scelta per attutire uno squilibrio tecnologico e bellico. I mass media sono veicolo più o meno inconsapevole di tale inedita strategia politico-militare, amplificando in tempo reale e su scala planetaria la tragedia della violenza in armi. I poteri, ben consapevoli, la strumentalizzano ai propri fini, sia usando i diritti umani come alibi dietro cui celare i propri obiettivi di dominio, sia usando le vittime civili come arma di ricatto al mondo intero per calcoli tattici (tregue, compromessi, armistizi, accordi temporanei).

Solidarietà e cinismo convergono in una nuova condotta: non è un caso che la nato da un lato distrugge con ciò favorendo paradossalmente Milosevic nello sbarazzarsi degli albanesi propri concittadini, dall'altro, come in un gioco di squadra predefinito, cerca di prestare aiuti e soccorsi una volta che il danno è fatto. Chi sostiene le ragioni di una guerra per intenti umanitari, visto che la repressione serba in Kossovo era scattata sin dal 1989, ha l'onere di giustificare la propria cecità politica e la propria inerzia diplomatica di questi ultimi dieci anni, per legittimare un intervento armato colpevolmente tardivo, poiché i diritti umani singolari esigono protezione non appena vengono colpiti, e non dopo una certa soglia arbitrariamente quantitativa (centomila morti? diecimila detenuti? mille esiliati?).

Già altrove, l'alibi umanitario dietro un intervento armato è caduto: in Somalia e in Ruanda nulla è stato fatto, e quel poco di peace enforcing (imporre la pace alle parti belligeranti proprio per tutelare i diritti umani delle popolazioni) che è stato fatto, armi alla mano di eserciti sotto egida ONU o coalizioni internazionali, è risultata controproducente, come già si comincia a vedere oggi in Kossovo (è già tanto che funzionano le operazioni ONU di peace keeping, di mantenimento della pace dopo accordi di pacificazione o di tregua tra parti belligeranti).

Spesso i governi strumentalizzano i soccorsi umanitari per accaparrarsi gli aiuti (medicinali, cibi, vestiari, infrastrutture logistiche), per aggirare eventuali embarghi internazionali (costringendo a far passare armi con gli aiuti, ad esempio), per tutelare i propri clientes quando non addirittura se stessi e le proprie famiglie o clan al potere.

L'intreccio perverso rende difficile scindere nettamente sul piano della realtà operativa solidarietà e cinica manipolazione dei diritti umani. Sarebbe necessario ipotizzare una forma di controllo dell'opinione pubblica mondiale che diffida degli alibi umanitari dei governi i quali, disinvoltamente, ieri reprimono e oggi aiutano (viceversa).

È difficile immaginare una sorta di interferenza umanitaria drasticamente impolitica, e quindi sganciata da interessi economici e geopolitici di stati oppressori o di stati "ingerenti" alla ricerca di neo-protettorati da istituire. Una vera ingerenza umanitaria dovrebbe situarsi a livello della popolazione da sostenere, e quindi attuata da "brigate internazionali" di volontari delle società civili sensibili a sviluppare culture radicalmente antinazionaliste e solidali. Si tratta di iniezioni di cultura libertaria ardua da praticare quando tuonano le armi o sibilano i missili; ciò nondimeno si tratta di cominciare a pensare attentamente a un braccio operativo che dia concretezza alle istanze di pace e tutela dei diritti umani, contro gli usi manipolativi della pace e dei diritti umani stessi.

Una reale solidarietà globale va costruita e formata, in tempo di pace, affinché possa scattare non appena sintomi di china pericolosa e autoritaria si presentino in qualunque area del pianeta, anche quelle ricche e democratiche, in modo deciso ed equanime, senza ripercorrere le linee di divisione esistenti nel pianeta tra ricchi e poveri, tra nord e sud, ma anzi interponendosi tra essi per legare i popoli al di là di regioni, di culture, di oscurantismi religiosi, di fervori xenofobi e sciovinistici che rappresentano l'esito nefasto di ogni nazionalismo etnico.

Affinché ciò non sia solo una delle ennesime utopie cosmopolitiche, da contrapporre comunque ai meno utopici disegni di nuovo ordine mondiale piramidale, sarà necessaria una riflessione sullo stato delle linee di divisione nel mondo in maniera da coniugare prospettive di cosviluppo autocentrato con orizzonti di autogoverno acentrato delle popolazioni, al di qua di schieramenti statuali, politici e militari, in modo da dare corpo al progetto di pianeta plurale e libero, sensatamente da inventare per esautorare definitivamente quei poteri forti che intendono attuare il passaggio dal pensiero unico al pianeta unico.

Salvo Vaccaro



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