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Da "Umanità Nova" n.14 del 25 aprile 1999

La banalità della guerra

I bombardamenti della NATO in Kosovo e in Serbia proseguono senza sosta. Oltre mille aerei sono stati impegnati nelle operazioni. L'arsenale missilistico - che costituiva il "normale" deterrente americano - è agli sgoccioli e dovrà essere al più presto reintegrato. Le tecnologie belliche più avanzate e sofisticate sono impiegate e messe alla prova con grande soddisfazione da parte degli addetti ai lavori. I danni inflitti al sistema produttivo, alle infrastrutture, ai trasporti della mini-federazione jugoslava sembrano enormi. Meno chiaro è quanto abbia patito il suo sistema difensivo. Le popolazioni civili serba, montenegrina e kosovara sono state colpite pesantemente, direttamente e in prospettiva futura. I risultati politici certi dell'intervento NATO sono grosso modo i seguenti e tutti contraddicono le intenzioni proclamate:

- l'esodo dei kosovari ha raggiunto dimensioni totali: centinaia di migliaia di profughi si sono riversati in Albania e in Macedonia moltiplicando gli effetti di quella "pulizia etnica" che si pretendeva di arrestare;

- la stessa Albania, meta privilegiata della migrazione kosovara, è sull'orlo di una crisi ancora più devastante di quella di due anni fa; non saranno le pelose campagne di solidarietà italiane ad allontanare lo spettro di una crisi economica e politica galoppante;

- lo scacchiere balcanico è, nel suo complesso, ancora più instabile e fragile di prima;

- Milosevic è più forte di quanto non sia mai stato: l'intervento NATO gli ha fornito, su un piatto d'argento, la patente di difensore dell'onore nazionale serbo, spiazzando e indebolendo l'opposizione non-nazionalista.

Dal canto proprio, la NATO e gli USA (con il loro codazzo di più o meno recalcitranti alleati europei) appaiono tetragonamente impermeabili alle evidenze dei fatti: si intensificano i bombardamenti e si programma un intervento di terra di proporzioni superiori a quelle della guerra del Golfo, litigando magari sulla nazionalità della carne da macello destinata allo sbarco sulle coste albanesi (americani? francesi? turchi?).

Che dire d'altro? Mentre il quadro appare chiaro nel suo complesso, gli sviluppi prossimi non lo sono affatto. Qualunque previsione qui si tenti può essere smentita dai fatti già all'uscita del giornale. Processi come quelli innescati da questo intervento nella ex Jugoslavia possono evolvere, al di fuori di ogni controllo, verso un difficile ritorno a un qualche equilibrio o verso gli esiti più devastanti. E' l'autonomia delle forze distruttive messe in movimento rispetto ad ogni possibile gestione o semplice controllo. E' possibile pianificare una guerra, cavalcarne l'onda montante. Non si può governarne il corso: questa è una lezione che le propensioni imperiali delle grandi potenze non sono mai state in grado di recepire, né mai lo saranno.

Passando ad un altro piano di riflessioni, la cosa più sconcertante di questa sporca guerra è la sembianza di normalità con la quale viene rappresentata e vissuta: è normale che ci sia un intervento militare della NATO; è normale che i bombardieri partano dal territorio italiano; è normale che l'Italia partecipi attivamente alle missioni di guerra; è normale che si bombardino fabbriche e case, che muoia popolazione civile; è normale che qualche bomba finisca fuori bersaglio uccidendo, magari, quei kosovari che si vorrebbero salvare; è normale "l'ingerenza umanitaria", anzi fa parte del patrimonio "ideale" della sinistra che governa; è normale che si sia in stato di belligeranza con un paese con il quale si mantengono relazioni economiche e diplomatiche; e così via di insensatezza in insensatezza fino al parossismo.

Certo tutto questo è normale, è la banalità della guerra, per parafrasare Hanna Arendt. E' normale nel senso che fa parte del patrimonio storico della fase imperialista dello sviluppo capitalistico, che appartiene in senso stretto alle "forme di vita" degli apparati statuali e governativi delle classi dominanti (siano essi totalitari o "democratici") e dei loro strumenti di conquista e di morte - le armi, gli eserciti, attiene al loro modo di risolvere crisi e contraddizioni, attiene, infine, alla concezione stessa di nazionalità come baluardo a difesa di identità collettive contrapposte.

Ma se questa è la normalità, la regola, che ci resta? Ci rimane il ribadire con forza l'estraneità, l'alterità degli interessi e dell'identità del proletariato, degli sfruttati, delle classi subalterne, dalle manifestazioni di vita e di morte del dominio capitalistico. Alterità totale che storicamente e teoricamente passa per l'emancipazione dalle forme dello sfruttamento e del dominio, ma che va riconquistata oggi sul piano "culturale" e dell'autonomia del punto di vista. Sia pure contro, ad esempio ritrovando come patrimonio comune alcune verità elementari, ma forti.

Dunque:

Se l'occidente è quello dello strapotere economico, del dominio globale, del diritto internazionale supino alle logiche di potenza, degli organismi e delle conferenze internazionali come punti di mediazione nella spartizione del mondo, allora non siamo occidentali.

Se l'Europa è quella di Maastricht, di Schengen, dell'euro, delle banche, di un nascente polo imperialista, allora non siamo europei.

Se l'Italia è quella di Aviano e della guerra, della disoccupazione e della precarietà, dell'attacco ai lavoratori, dell'inasprimento delle leggi repressive, di D'Alema e dei suoi complici di ogni risma, allora non siamo italiani.

Se nazionalità, etnia, cultura, tradizione sono mascheramenti di egoismi, interessi privilegiati, clanicità mafiose e subalternità alle logiche di dominio, allora non abbiamo nazionalità né etnia, non abbiamo tradizioni che non siano quelle della nostra classe di appartenenza, delle sue lotte e delle sue battaglie, non abbiamo cultura che non sia quella della disobbedienza, della diserzione, del sabotaggio e della rivolta.

G.B.



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