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Da "Umanità Nova" n.14 del 25 aprile 1999

Dietro i massacri. La logica del neo-protettorato

È del generale prussiano Karl von Clausewitz (1780-1831) la celeberrima e citatissima espressione: <<la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi>>, risalente al 1832, anno della pubblicazione postuma del suo trattato di polemologia Della guerra. Se ciò è corretto, allora è interessante comprendere non solo le ragioni politiche dell'attuale guerra nei Balcani, ma anche e soprattutto l'obiettivo politico che l'attacco Nato si prefigge.

I conflitti armati, convenzionali e non, sono ingovernabili per definizione, giacché la logica militare ha effetti di amplificazione delle matrici di previsione (escalation). Ciò nondimeno, gli orizzonti predefiniti sono costantemente in mente alle autorità politiche, anche se spesso non si rendono visibili all'analisi perché celati dietro le polveri da sparo, i fumi della distruzione e il sangue delle vittime innocenti.

Paradossalmente, il conflitto scatenato dalla Nato sembra aver peggiorato i margini di un accordo secondo il protocollo non firmato a Rambouillet, sottoposto dal gruppo di contatto europeo con il sostegno russo-americano, ma non contrattato con le parti, chiamate a sottoscriverlo in blocco o meno; in esso si palesava uno scambio più o meno alla pari: i rappresentanti della popolazione albanese di cittadinanza jugoslava residente nella provincia serba del Kossovo rinunciava all'indipendenza via secessione (tuttavia accettata dalla comunità internazionale per sloveni, croati, bosniaci, macedoni e addirittura serbo-bosniaci), e otteneva l'autonomia politica e culturale come ai tempi della costituzione titina; mentre i serbi mantenevano intatta la sovranità ma avrebbero dovuto accettare un esercito straniero che controlli l'effettiva applicazione degli accordi, non sotto egida Onu ma sotto autorità Nato, come la Sfor in Bosnia dopo la "tregua" di Dayton nel 1995.

La guerra ha fatto saltare questa ipotesi di accordo, come era ampiamente prevedibile. Ma altrettanto prevedibile era il peggioramento della condizione della popolazione kossovara, che oggi, a riflettori spenti perché in piena guerra difficile è informare con obiettività e senza prestarsi involontariamente alla propaganda della parti belligeranti (anche questo ampiamente prevedibile), è sottoposta forse non a un tentativo di genocidio, come per gli Armeni nel 1915, ma a una gigantesca e programmata operazione di polizia interna tesa alla pulizia etnica, alla cancellazione dell'identità e della presenza albanese nel suolo serbo del Kossovo, ad una deportazione di massa violenta e brutale, ad una strategia di massacri di massa della popolazione maschile il età plausibile di ingrossare le file dei partigiani dell'Uck (che peraltro sembra essersi dissolto senza fare resistenza a fronte di un esercito ben organizzato, poco danneggiato dagli attacchi aerei; o stanno solo occultandosi per uscire fuori se scatta l'invasione terrestre della Nato?).

La poca consistenza degli attacchi aerei è uno dei capisaldi di ogni manuale militare, che lo comprende come fase propedeutica ad una operazione di terra, tuttavia sempre smentita sino ad oggi dall'Alleanza Atlantica, timorosa di impegnare l'Europa in un equivalente del Vietnam: guerra impossibile da vincere su territorio nemico con una popolazione ostile perché fortemente nazionalista.

Se non vogliamo pensare che la Nato sia diretta da novelli Stranamore o da stupidi arroganti, anche se non va scartata l'ipotesi della "imbellicità al potere", nemesi rovesciata di un noto slogan del 1968, visto che i contestatori di allora sono oggi al potere, da Clinton a Cohn-Bendit, viene da pensare che tali effetti siano stati previsti. Far nascere una emergenza profughi tale da scuotere l'opinione pubblica mondiale in modo da preparare il terreno sia all'opzione militare estrema, sia a una soluzione tampone con Milosevic, al quale nel frattempo si è dato il tempo e l'oscurità necessaria per ripulire il Kosovo della presenza albanese. "Giusta" soluzione finale potrebbe quindi essere la separazione del Kosovo in due parti, una, quella settentrionale, definitivamente (per quanto?) legata alla Serbia, che vi farà risiedere con continuità territoriale sia l'attuale minoranza serba nel Kossovo che i profughi serbi provenienti dalla Krajina croata e da altre aree di pulizia etnica risalenti alla guerra di secessione 1991-94; mentre l'altra metà o poco meno del Kosovo, quella meridionale, potrebbe ottenere una sorta di status di protettorato, area cuscinetto di decantazione degli animi e di rifugio per i profughi ritornati, legata all'Albania ma non annessa ad essa (per quanto?) per non pregiudicare equilibri e istanze rivendicative grande-albanesi anche in Macedonia. Se prima i kosovari, avendo uno standard di vita superiore agli albanesi, avrebbero lottato per la propria indipendenza ma probabilmente non per l'annessione alla povera Albania, dopo le distruzioni simile sarebbe lo standard da poter fare balenare tale ipotesi finale.

Su tutte le opzioni politico-diplomatiche pronunciate a mezza voce in questi tempi bui, quella di una Conferenza Internazionale che ridisegni i confini tra gli stati balcanici riecheggia la logica, ieri coloniale, oggi neo-protettorale, che il vecchio mondo europeo si diede il secolo scorso per cercare di risolvere dispute nazionaliste, senza accorgersi, ieri, di imboccare la china che portò al primo conflitto mondiale - e senza considerare i danni perpetui delle conferenze che tracciano arbitrariamente confini dall'alto di una mappa geografica senza consultare minimamente le popolazioni interessate: ne sanno qualcosa i curdi dopo la conferenza di Losanna nel 1920 e gli africani dopo l'analoga conferenza di Berlino del 1878.

Se questo è uno scenario possibile, per attuare il quale è "necessario" passare attraverso violenti conflitti che calpestano i diritti e le vite di innumerevoli donne, bambini e uomini civili inermi, meri spettatori passivi e vittime sacrificali dei decision makers all'opera nei vari governi, cosa si cela dietro la logica neo-protettorale che si vorrebbe sperimentare nei Balcani e di cui Bosnia, Albania e forse Macedonia sono già tasselli posti?

Salvo Vaccaro



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