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Da "Umanità Nova" n.19 del 30 maggio 1999
I cent'anni della Fiat
La fabbrica esce dai suoi confini
TRIBUNALE DI TORINO
Accanto ai fenomeni analizzati nella prima parte del presente lavoro (v. UN n.
16 del 9 maggio), un altro fondamentale aspetto delle trasformazioni di questi
anni è l'espansione della fabbrica fuori dei suoi confini a modellare il
territorio, con la diffusione di spezzoni del ciclo al suo esterno. Il
territorio è messo al lavoro e riorganizzato secondo le esigenze della
produzione. Si pensi a tutto l'indotto creato con l'aiuto Fiat da ex operai o
capi dove le condizioni di lavoro sono sempre state peggiori che all'interno
della grande fabbrica. La produzione si diffonde all'esterno delle pareti
aziendali anche grazie alla duttilità delle nuove tecnologie, alla
necessità di spazi più ristretti per la produzione, alla
disoccupazione crescente che fa accettare le condizioni di lavoro al ribasso,
tipiche delle microrealtà aziendali. Questo processo interessa tutta
l'industria e, iniziato già negli ani '70, ha avuto un'esplosione negli
anni '80 e può oggi considerarsi il normale assetto del ciclo
produttivo.
Non per nulla è stata teorizzata l'impresa a rete, secondo un
modello molecolare, in cui la catena tradizionale del comando gerarchico
scompare lasciando spazio ad un intreccio neuronale di relazioni in rete,
sottoposte al controllo di chi la rete gestisce.
Nell'ambito di tale processo, la Fiat, in primo luogo, nel corso degli anni '70
si trasforma in holding assegnando a specifiche società la realizzazione
dei singoli prodotti (auto, veicoli industriali, autobus, ecc.).
Successivamente esternalizza alcune attività corollario di quella
produttiva, dal trasporto su gomma alle Unità di produzione
accessoristica (UPA), alle concessionarie. Si ha un movimento dalla fabbrica
verso il territorio.
L'ultimo anno si caratterizza per un ulteriore passaggio del processo di
esternalizzazione o terziarizzazione. E' la stessa fabbrica che si disgrega in
tante singole aziende quante sono le attività connesse al ciclo
produttivo del prodotto automobile: la Fiat cede o progetta di cedere la
movimentazione interna dei materiali, la verniciatura, le presse, la produzione
delle sospensioni, la contabilità del personale, il servizio di pulizie,
la manutenzione degli impianti, la gestione dei flussi energetici, il riciclo
dei materiali e lo smaltimento dei rifiuti... ad aziende che opereranno
all'interno dello stesso spazio fisico ed i cui dipendenti, giuridicamente
separati, concorreranno alla realizzazione del prodotto finale auto.
La Fiat cede a tali aziende sia il segmento dell'attività produttiva che
i dipendenti in esso occupati, che cessano di essere dipendenti Fiat, diventano
dipendenti di altre società, ma continuano a fare lo stesso lavoro nello
stesso luogo. Le aziende in questione possono essere sia del gruppo Fiat sia
aziende completamente estranee al gruppo.
Come e perché avviene questo fenomeno? Si può dire che
paradossalmente la grande fabbrica, pur con tutte le innovazioni di questi anni
nel senso della flessibilizzazione del ciclo, sia rimasta indietro rispetto al
territorio e alla società. Negli anni '80 e '90 si è affermato in
quest'ultima in modo onnipervasivo il paradigma produttivistico (si vive per
lavorare). Tutta la società è al lavoro e quindi non ha senso che
ci sia difformità tra società e fabbrica. La fabbrica aveva
permeato di sé la società, aveva dettato modelli, tempi, aveva
riorganizzato il territorio.
Come detto sopra, la Fiat è stato luogo privilegiato dello scontro tra
modello (anche culturale) capitalistico e il rifiuto del lavoro di cui i
movimenti del ciclo 1969 - 1980 si fecero portatori. L'affermazione
dell'autunno 1980 sui propri dipendenti è stata per la Fiat
fondamentalmente una vittoria su un modello di società alternativa a
quella di cui si è sempre fatta portatrice ed ha segnato volente o
nolente uno spartiacque, spalancando le porte alla omologazione di tutta la
società al modello produttivistico. Simbolo e strumento di cambiamenti
radicali, la vittoria dell'ottobre 1980 inaugura i rampanti anni '80 del
decisionismo e della Milano da bere. Anche nel linguaggio
prevalgono i termini aziendalistici, si parla di sistema paese, di
azienda Italia, come se questa e solo questa possa essere la trama del
vivere sociale, la produzione, l'organizzazione volta alla massimizzazione
delle risorse, la prevalenza sulle risorse umane di chi queste risorse
sa far fruttare e ottimizzare. Tanto che oggi si parla solo più di
risorse umane e di esuberi, anziché di lavoratori, andata
persa con questa parola l'individualità dell'essere umano che lavora.
Oggi la società ha ridefinito però il modello produttivo nel
senso della frammentarietà e flessibilità e si verifica un
fenomeno di ritorno (feedback) per cui è la società, così
come è oggi, che invade (si può dire) con le sue fluidità
la fabbrica e la disintegra.
Nella società predomina la frammentazione non soltanto produttiva, ma di
status del singolo lavoratore. Il contratto di lavoro subordinato a tempo pieno
e indeterminato di gran parte dei dipendenti Fiat oggi costituisce un residuo
del passato e una rigidità (l'ultima) che nel prossimo futuro
sarà superata. Le terziarizzazioni ed esternalizzazioni degli ultimi due
anni sono lo strumento di questo feedback.
Le singole aziende cui sono commesse le particolari attività del ciclo
in qualità di appaltatrici saranno progressivamente legittimate
all'utilizzo di tutte le forme di contratto di lavoro atipico, compreso
l'utilizzo di lavoratori dipendenti da agenzie di lavoro interinale o
l'utilizzo di cooperative. Si badi come l'età media dei lavoratori
terziarizzati e ceduti, ad esempio, alla TNT Production Logistics come
carrellisti, sia particolarmente elevata: al loro andare in pensione questi
dipendenti non saranno sostituiti da altri lavoratori con lo stesso status, ma
da giovani con contratti a termine, part-time, interinali, ecc.
Attività che erano tradizionalmente utilizzate per offrire un lavoro
agli inidonei (lavoratori che nel corso della loro vita perdono parte della
capacità produttiva per infortuni, usura, malattia), ai portatori di
handicap avviati obbligatoriamente, ecc., cioè quelle, ad esempio, di
carrellista, magazziniere, addetto alle pulizie, saranno svolte da ditte
esterne e il futuro inidoneo Fiat si ritroverà senza possibilità
di utilizzo. Le aziende esterne potranno inoltre trasferire in altre
unità produttive i lavoratori non graditi dalla committente Fiat. La
precarizzazione del rapporto di lavoro comporterà una naturale bassa
sindacalizzazione dei lavoratori delle aziende appaltatrici.
A questo punto la manodopera raggiungerà il massimo di
flessibilità e variabilità nella sua composizione e
l'unità necessaria a qualsiasi tipo di azione sindacale e di tutela
articolata sarà problematica da raggiungere. A questo punto il comando e
il controllo saranno massimi sul singolo, totalmente in balia del
momento produttivo, ma il beneficiario dell'attività lavorativa
sarà posto a distanza irraggiungibile, anche giuridicamente.
Infatti, la Fiat manterrà alle proprie dirette dipendenze una minima
porzione del ciclo produttivo e avrà il volto di una holding finanziaria
per tutti i dipendenti delle aziende che concorreranno alla realizzazione del
prodotto Fiat. Con un meccanismo a cascata di appalti e subappalti, tra colui
che offrirà la prestazione lavorativa e l'effettivo beneficiario si
frapporranno anche più schermi giuridici. Si realizzerà una sorta
di taylorismo giuridico, per cui non solo la singola porzione di ciclo
produttivo viene isolata dalle altre in via di fatto, ma anche lo status
giuridico di chi tale porzione di attività lavorativa presta, dipendente
da una società che nulla ha a che fare con tutte le altre cui le singole
parti del ciclo sono commesse, anche le più vicine. L'effetto di
estraneità tra le parti del ciclo e di lontananza e astrattezza del
beneficiario della prestazione sarà totale. Il paradigma economico del
controllo diventa condizione giuridica.
Le discussioni in atto tra Fiat, sindacati confederali e politici sul
distretto dell'auto e sul patto territoriale per Torino e il Piemonte
stanno creando i presupposti comunicativi alla realizzazione di tale scenario.
La CGIL ha qualche mese fa presentato il progetto per trasformare Torino in una
Tecnocity al servizio dell'auto, con il corollario di flessibilità
(part-time) in entrata e in uscita per i lavoratori (v. La Repubblica
del 3.12.98, pag. 34: si noti che proprio con l'ultimo collegato alla
finanziaria in questi giorni è stata approvata la "staffetta" tra
giovani e anziani). Tale progetto indica altresì la direttrice
dell'ulteriore sviluppo della Fiat e del suo territorio natale. In esso si
parla chiaramente, infatti, della necessità di concentrare a Torino i
momenti di progettazione e realizzazione delle produzioni ad alto contenuto
tecnologico legate al prodotto auto. L'istituzione al Politecnico di Torino del
corso di studi in tecnologia dell'auto va in questa direzione.
Ora, è chiaro che la proposta sindacale è già la
scelta che ha fatto la Fiat. Non esiste spazio di discussione sul punto; il
sindacato confederale recita solo la sua parte di comprimario che nella
legittimazione datoriale trova la sua ragione di esistere, avendo da tempo (ben
prima della sconfitta del 1980) fatto la scelta di non giocarsi nella battaglia
per la gestione del tempo liberato dall'innovazione tecnologica, lasciando che
tale tempo divenisse disoccupazione, anziché occasione di ridisegnare
l'intero tempo di vita della società.
Dal punto di vista della futura Tecnocity non c'è posto per due
stabilimenti produttivi come Mirafiori e Rivalta. Se Mirafiori potrebbe
salvarsi per l'alto valore simbolico che si porta dietro, è possibile
che Rivalta diventi uno dei punti di forza dell'insieme di aziende, laboratori,
ecc. che si dovrebbero coagulare intorno al progetto del distretto
dell'auto, spazio fisico da riempire con aziende già esistenti da
ricollocare o nuove che sorgeranno.
E' possibile che il futuro della Fiat costituisca la sintesi di due processi
che si sono svolti negli ultimi trent'anni, uno a livello mondiale e un altro a
livello nazionale.
Da un lato c'è l'assetto globale che ha assunto il mercato, sia in
termini di concorrenzialità tra produttori che come crescere di aree di
mercato in cui è più economico direttamente produrre,
anziché semplicemente esportare; tali aree aumentano di importanza in
termini di fatturato globale di tutte le industrie produttrici di auto.
Soprattutto Sud America e Asia sono mercati in rapida espansione, dove la
motorizzazione della popolazione è a livelli bassissimi e dove quindi i
margini di crescita dei mercati sono particolarmente appetitosi. Messico,
Brasile, India, Cina: qui è il futuro della Fiat e delle altre case
automobilistiche.
Il comando però delle varie unità produttive sparse per il globo
resterà centralizzato, così come tutto il sapere che poi si
materializza nella produzione (Torino come Tecnocity dell'auto).
Al tempo stesso, si è compiuta la disciplinarizzazione di quel
rifiuto del lavoro che nel '68- '69 si coagula come movimento di massa,
nel '77 vede l'acme di scontro fisico con il potere, che nell'80 viene
sconfitto sul campo. Oggi l'intera società messa al lavoro dal capitale
preme ai cancelli di Mirafiori e Rivalta e penetra negli interstizi della
produzione come flessibilità, terziarizzazione, precarizzazione di tutti
i rapporti di lavoro.
Il processo di riduzione della necessità di lavoro vivo all'interno del
ciclo di produzione grazie alle innovazioni tecnologiche si è
trasformato in disoccupazione, sottoccupazione, precarizzazione di massa in
Occidente, non certo solo da noi. Il processo non è stato controllato e
naturalmente è andato nella direzione voluta dal capitale.
Oggi a Pune, in India, "l'auto si fa come una nave" (così Cantarella a
Il Manifesto) nel senso che lì la fabbrica nasce già
terziarizzata, come, appunto, un cantiere navale dove singole aziende producono
solo un pezzo del ciclo. E' interessantissimo questo feedback tra Pune e
Mirafiori o Rivalta. Non solo i paesi extraeuropei diventano loro malgrado
protagonisti di un vero e proprio dumping sociale per i bassi costi di
produzione, consentendo il quotidiano ricatto padronale di trasferire
all'estero le aziende se non si accettano sempre maggiori compressioni dei
salari e aumenti della produttività; ma funzionano altresì come
laboratori della massima flessibilizzazione del ciclo e del singolo rapporto di
lavoro.
Così non solo le rigidità dell'operaio di Mirafiori e
Rivalta devono fare i conti con la flessibilità della società
occidentale, ma con la concorrenza (al ribasso) dei colleghi ad esempio
sudamericani o indiani che potrebbero un giorno cessare di produrre solo per il
loro mercato interno.
Nel nome ancora una volta della crisi occupazionale che ha assunto dimensioni
strutturali, creata e mantenuta dal capitale stesso, che si è
appropriato del tempo liberato dall'innovazione tecnologica, si
flessibilizzeranno in toto Mirafiori e Rivalta, per poi, tra qualche anno,
trasformarne una nel polo della Tecnocity che Torino sarebbe destinata a
diventare.
Alla fine di queste breve lavoro, resta la domanda sugli strumenti di difesa
dei lavoratori che di questa nuova tappa della storia Fiat rischiano di essere
solo oggetto. La risposta dovrebbe essere di squisito stampo sindacale: per cui
qui ci si limita ad alcune personali riflessioni.
Le mutazioni intervenute nella società e nel modo di produrre devono
dettare i tempi e i modi della risposta di tutti i salariati che a qualsiasi
titolo oggi sono coinvolti in questi processi. Si vuol dire che la stessa Fiat
è stata oggi superata in flessibilità e riduzione di tutto il
tempo in tempo di lavoro dalla società; la lotta quindi non è
più solo dentro la fabbrica, ma, piuttosto, è quotidiana e a
tutto campo. Paradossalmente, si può dire che è inutile
prendersela (solo) con la Fiat se tutto all'intorno è pervaso dal
paradigma produttivistico. E' riduttivo incentrare l'attenzione sul semplice
rapporto tra lavoratori e azienda, perché così si fa il gioco di
chi ha ridotto tali relazioni in senso neocorporativo, piuttosto che
conflittuale, incanalando negli ammortizzatori sociali gestiti azienda per
azienda, crisi per crisi, da sindacati confederali, governo e datori di lavoro,
le energie che le contraddizioni insite nelle più recenti trasformazioni
avevano indotto. Solo rompendo con tale modello e superando la mera dialettica
endoaziendale, è possibile inventare nuovi percorsi di liberazione.
Anche perché, lo si ripete, siamo passati dalla rivendicazione della
liberazione dal lavoro da parte dei salariati, alla liberazione dal lavoro del
capitale. Il processo di valorizzazione del capitale prescinde sempre
più in Occidente dal lavoro vivo: e se incominciassimo a prescindere dal
capitale e cessassimo di farci dettare dallo stesso i tempi non solo della vita
quotidina oggi, ma, il che mi pare peggiore, anche i tempi del futuro?
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