![]() Da "Umanità Nova" n.20 del 6 giugno 1999 La Sinistra con l'ElmettoClinton, Blair, Jospin, Schroder, D'Alema: cinque leader dei G8 sono eredi della sinistra socialista, un tempo emblema della pace a tutti i costi, del "meglio rossi che morti" ai tempi degli euromissili, per non parlare di chi non è anadto in Vietnam o di chi, come Dany "Le Rouge" Cohn-Bendit era sulle barricate nel lontanissimo maggio parigino. Oggi tutti autocoscritti alla leva militare. E' vero che alcuni di questi nuovi eroi hanno pochi o nulli margini di manovra. E' vero poi che il potere trasforma perché la sua logica spietata azzera memorie e identità che risultassero incompatibili con il suo esercizio. E' anche vero che in politica l'ipocrisia dei ruoli è indipendente dalle profonde convinzioni di ognuno (ma è regola della politica non avere delle profonde convinzioni). E' altrettanto vero che i nuovi "parvenus" al potere autoconfermano di dover essere più realisti del re (ossia del capocordata, del capoclan). Ma lo choc di una sinistra (sia pure moderata e al centro) guerrafondaia riporta alla spaccatura della prima guerra mondiale, anche se oggi il panorama è più desolato perché pochi sono dalla parte della non-guerra (Rifondazione ne fa un vomitevole uso strumentale a fini elettoralistici). Allora è forse utile interrogarsi sulla metamorfosi politica delle socialdemocrazie europee e chiedersi perché vadano alla guerra tutto sommato allegramente, con fiducia nella giusta (terza) vi, come direbbe Blair. Pur non essendo determinante, una certa logica di politica economica può dare una risposta plausibile. E' noto come la difesa minima del welfare state da parte delle socialdemocrazie europee si scontri con un modo di accumulazione delle ricchezze drasticamente mutato, che non obbedisce alla territorialità della sovranità statuale perché legato a flussi di capitali finanziari speculativi difficilmente coglibili e quindi tassabili. d'Altro canto le trasformazioni nel modo produttivo fanno diminuire le quote di ricchezza prodotte dal lavoro (nei paesi maggiormente industriali) e ciò rende difficile innalzare la soglia del prelievo fiscale dei redditi di lavoro sul territorio (industria, servizi, pubblico impiego, ecc.). Si tratta della crisi fiscale degli stati di cui si parlava sin dagli anni `70 in sincronia con le prime mosse della globalizzazione economica e dello smantellamento del controllo statale dei relativi processi (tutela della divisa nazionale, liberalizzazione del movimento degli investimenti finanziari, ecc.). Tuttavia anche il liberismo non si dimostra una ricetta giusta perché provoca disgregazione sociale ai massimi raggi di estensione, pure nel cuore dei paesi industrializzati. E quel che il capitale può profittare oggi, lo può perdere domani in costi sociali salatissimi. E questo domani è già oggi. Ai tempi di Wall Street (la crisi del 1929) la ricetta migliore si dimostrò la II guerra mondiale. Oggi, dice il subcomandante Marcos, siamo nella IV guerra mondiale (la terza essendo stata la guerra fredda, vinta dall'occidente tra il 1989 - caduta del muro di Berlino - e il 1991 - dissoluzione dell'Unione Sovietica), ma si dubita che la socialdemocrazia se ne sia accorta. E' più probabile ritenere che essa insegua ancora un percorso rischioso di keynesismo di guerra. In clima recessivo e di disoccupazione di massa - meglio, di inoccupazione di intere fasce generazionali - questo ceto politico non trova di meglio che illudersi nel passato: la guerra ridistribuisce pesi e oneri economici e finanziari, costituisce una ghiotta opportunità imprenditoriale (già oggi gli aiuti umanitari concorrono a far arricchire il nuovo business delle agenzie umanitarie occidentali, lasciando le briciole ai disgraziati della terra); per via degli investimenti perla ricostruzione (novello piano Mashall, lo chiamano rievocando la manna piovuta dal cielo) attraverso cui riavviare il volano delle economie occidentali. La conquista di nuovi mercati - e i Balcani sono un mercato appetibile - passa attraverso la distruzione massiccia e capillare delle infrastrutture civili da ricostruire una volta passata la bufera, da parte di imprese "vincitrici" ma non sul campo degli appalti lanciati dai governi vinti, bensì insediate dagli attori politico - militari usciti appunto vittoriosi dallo scontro bellico, come bottino di guerra. Poco importa, nel raffronto con la mole di investimenti da fare, la sfera militare colpita dagli attacchi NATO; anzi verrebbe da sospettare che la relativa forza intatta dell'esercito jugoslavo non sia casuale perché il ceto militare potrebbe essere l'alternativa sia al regime di Milosevic, una volta caduto, sia all'emergenza di una reale opposizione proveniente dalle risorse della societàcivile democratica, partner inaffidabile nel ruolo di vittima sacrificale. Se davvero l'ipotesi del keynesismo di guerra è plausibile per comprendere le ragioni di una socialdemocrazia europea al potere entusiasta della guerra nei Balcani (e Blair ne è l'emblema più spocchioso), al fine dunque di riacquistare potere sulle politiche economiche in quanto guerra la guerra vincola il movimento dei capitali, va da se che tale strategia risulta quanto meno miope perché non intacca alcuno dei meccanismi di accumulazione delle ricchezze, mirando ad accaparrare una quota maggiore della loro circolazione a scapito, ancora una volta, delle popolazioni realmente bisognose di aiuti mondiali per sopravvivere con dignità: Ma ciò sia detto senza minimo stupore. Tale miopia è legata altresì alla mera difesa del welfare senza capacità di inventare una sfera pubblica non statale che sostituisca logiche pubbliche e logiche private disancorando il mondo variegato del no-profit, del privato sociale, dell'autogestione, ecc. dalle risorse statali mediate dal sistema dei partiti (non è vero relativamente alle neo-esperienze dei cantieri sociali legati ai centri del Nord - Est?) Su questo punto, si misura la reale capacità di saldare critica della guerra umanitaria con un diverso modo di declinare la solidarietà internazionale verso i deboli, gli sfruttati e i vinti sotto qualunque latitudine si trovino, qualunque lingua parlino, sconfiggendo logiche particolaristiche ipotecate perversamente da miti nazionalistici o di purezza etnica. Salvo Vaccaro
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