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Da "Umanità Nova" n.20 del 6 giugno 1999

Balcani: gli interessi economici e politici dello Stato italiano
I lauti guadagni dell'Italia

In due precedenti articoli ("Il controllo dei corridoi", UN n. 15 e "Le vie del petrolio" UN n. 16) ho cercato di mostrare i motivi dell'interesse delle grandi potenze (Stati Uniti ma anche Germania, Italia, Francia, Regno Unito e Russia) per la regione balcanica, motivi che possono essere riassunti nella sua funzione di cerniera fra Europa occidentale e l'area del Caucaso/Mar Caspio, con le sue ricchezze petrolifere. Il punto di partenza del mio ragionamento è, evidentemente, che la guerra per il Kosovo non è una guerra "umanitaria" ma ha precise motivazioni "imperialiste".

Con questo terzo e ultimo intervento cerco di mostrare gli enormi interessi che l'Italia ha nei Balcani.

Per capire lo sviluppo dell'impegno italiano nei Balcani è necessario ritornare alla fine degli anni '80, quando il governo italiano era convinto che rientrasse nei suoi interessi il mantenimento dell'unità della Federazione Jugoslava. Fino al novembre del 1991 Roma si mosse attivamente per sostenere quest'ipotesi. La spiegazione era semplice: nel giro di pochi anni l'interscambio con la Jugoslavia era raddoppiato e l'Italia sembrava avviata a soppiantare la Germania come suo primo partner commerciale; appariva quindi logico cercare di evitare la frammentazione della Federazione Jugoslava che avrebbe fatto della Slovenia una provincia tedesca e della Serbia un nuovo alleato della Russia. Nell'ambito di questa politica l'Italia aveva promosso nel novembre dell'89 l'accordo di collaborazione politica ed economica "Quadrangolare" con Austria, Ungheria e Jugoslavia, facendo di quest'ultima il perno della propria penetrazione economica nell'Europa post - comunista. Poi l'accelerazione tedesca e vaticana in favore del riconoscimento delle repubbliche secessioniste (Slovenia e Croazia) travolse le speranze italiane e il governo di Roma si spostò velocemente sulla linea di Bonn, che da tempo trovava autorevoli sostenitori nei forti gruppi di pressione economico-politici del Nord Est, appoggiati da esponenti DC e dal Vaticano.

Fra il 1991 e il 1993, l'iniziativa italiana segnò il passo, un po' per la guerra che dilaniava la ex Jugoslavia, un po' per le conseguenze del tracollo della vecchia classe dirigente social-democristiana, travolta da tangentopoli. Verso la metà degli anni '90, il governo italiano cominciò a riprendere l'iniziativa anche per le spinte dei gruppi economici che al traino del gigante tedesco avevano cominciato a penetrare nei paesi ex comunisti. "Un nuovo Eldorado alle porte del Triveneto" titolava "Il Sole - 24 ore" del 12 marzo 1997. "La delocalizzazione delle imprese del Triveneto verso i paesi dell'ex blocco comunista - sosteneva il quotidiano padronale - si sta trasformando in una vera e propria caccia all'oro. Non c'è paese che sia risparmiato da questa nuova ondata migratoria che ha preso le mosse dopo la caduta del muro di Berlino. Ormai gli imprenditori del Nord Est si sentono dei veri e propri pionieri".

Sollecitato dai "pionieri" del Nord Est ma anche dalla grande industria privata e pubblica presente nell'area (la Fiat in Polonia, Ucraina e Serbia, l'ENI in Croazia e Repubblica Ceca, l'Alitalia, l'Ansaldo e l'Italgas in Ungheria, la Telecom in Repubblica Ceca e Serbia, la Lucchini e la Ferrero in Polonia, la Parmalat in Ungheria e Ucraina, l'Alenia in Ucraina, tento per citare gli esempi più conosciuti), il governo di centro sinistra lancia una vera e propria offensiva per propagandare e imporre il cosiddetto "sistema Italia". L'offensiva del governo Prodi è martellante: nel giro di due anni 200 missioni governative, spesso con presenze ad altissimo livello (Scalfaro, Prodi, Dini, Fassino, sono tra i più attivi), decine di manifestazioni e fiere promozionali, svariati accordi a livello governativo, spesso con presenze ad altissimo livello (Scalfaro, Prodi, Dini , Fassino, sono tra i più attivi), decine di manifestazioni e fiere promozionali, svariati accordi a livello governativo ma soprattutto facilitazioni economiche per i "pionieri" italiani. I risultati si vedono: nel 1997, per esempio, le esportazioni italiane in un piccolo paese come la Slovenia raggiungono i 3376 miliardi di lire, contro ad esempio, i 1500 miliardi in Irlanda, i 2700 a Singapore, i 3100 in Canada e in Danimarca o i 2900 in Argentina.

"La proiezione ad Est ha una valenza strategica particolare" scrive nel settembre 1998 il sottosegretario agli esteri, Fassino. "Già oggi l'Italia ha acquistato posizioni di mercato rilevanti: mediamente siamo il secondo partner commerciale dell'intera area che si estende dal Baltico ai Balcani e la nostra presenza è superiore alla somma di quella francese e inglese. E in particolare nell'area adriatica siamo saldamente primo partner di tutti i principali paesi. E questo radicamento in Europa centrale e nei Balcani si irradia più ad oriente, in Russia, ove l'Italia è il terzo paese per investimenti, nelle Repubbliche del Caucaso e nelle nazioni eurasiatiche nata dalla dissoluzione dell'URSS." (Limes, n. 3/1998). Anche se Fassino esagera (in realtà la penetrazione economica italiana è ancora subordinata a quella tedesca, salvo che in Croazia e in Albania, dove l'Italia è il primo partner commerciale) è evidente che l'Italia ha assunto nel giro di pochi anni un ruolo di primo piano nell'Europa dell'Est non solo per la massa delle esportazioni ma anche per la presenza diffusa di medie e piccole imprese: seimila in Romania, mille in Ungheria, 750 in Slovacchia, etc.

Ma la classe dirigente italiana non si accontenta, occorre fare un salto di qualità, tirare le fila del lavoro svolto, arrivare ad una penetrazione economica duratura che permetta al capitalismo nazionale di mettere radici salde nella regione, sfruttare al massimo le enormi possibilità di profitto offerte dai paesi ex comunisti. In un'intervista pubblicata da "Il Sole - 24 ore" del 15 settembre del 1998, Fassino, ora divenuto ministro del commercio estero, delinea questa seconda fase: "Gli accordi bilaterali intergovernativi dovranno cedere il passo ad accordi tra imprese e joint venture. Le idee sono l'integrazione nella UE e la cooperazione regionale. A questo scopo stiamo favorendo la creazione del corridoio n. 5 (Trieste - Kiev passando per la Slovenia e l'Ungheria) e del n. 8 che da Brindisi va a Varna e da lì al Caucaso e attraverso il Caspio fino al Kazakhstan. Grandi assi di sviluppo fatti di pipeline, ferrovie, autostrade e telecomunicazioni". E' dunque sulle grandi infrastrutture che si punta, per guadagnare commesse per le società impiantistiche ma soprattutto gestire le vie di comunicazione strategiche. Su "Il Sole - 24 ore" del 21 aprile scorso si leggeva la notizia che il presidente della Camera Violante, in visita in Macedonia, aveva annunciato per il due maggio a Skopije un vertice tra Italia, Albania, Macedonia e Bulgaria, per discutere del futuro del cosiddetto "corridoio n. 8". Non so se il vertice annunciato da Violante si sia mai tenuto, è però pieno di significati il fatto che in piena guerra l'Italia si muovesse per realizzare i suoi obiettivi, facendo quindi fruttare al massimo la sua presenza militare nella regione.

L'Italia non pensa solo ai "corridoi" 5 e 8 ma anche a una pipeline che dovrebbe far arrivare a Trieste, via Romania, Serbia e Croazia, l'oro nero estratto dall'AGIP nel Caspio.

Certe ambizioni economiche devono però essere supportate da una presenza militare che nella seconda metà degli anni '90 cresce in modo impressionate. Nel 1995, Roma ottiene di essere inserita nel Gruppo di contatto sulla crisi della ex Jugoslavia, composta da Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Germania e soldati italiani si schierano in Bosnia nel contingente a comando NATO. Nel 1997 l'Italia ha il comando del contingente europeo che deve "modificare" la l'Albania. Anche dopo il ritiro del contingente militare l'Albania rimane saldamente presidiata da polizia, carabinieri e finanzieri, oltre che da un contingente della Marina militare italiana. Nel novembre 1997, Italia, Ungheria e Slovenia firmano l'accordo per la creazione di una Brigata mista destinata "da una parte a rafforzare la sicurezza dell'Europa centro orientale" e dall'altra a facilitare l'ingresso di Slovenia e Ungheria nella NATO. Nel maggio 1998 i sottosegretari alla difesa di 9 paesi - Italia, Albania, Bulgaria, Grecia, Macedonia, Romania, Turchia, e, come osservatori, Stati Uniti e Slovenia - firmano a Tirana una lettera di intenti per creare una forza di pace per i Balcani, costituita da 2000 uomini che potranno essere impiegati nell'ambito di operazioni ONU e OSCE e per iniziative "umanitarie". Come si vede l'Italia è l'unico paese non balcanico del gruppo.

Conclusioni.

Il termine "imperialismo italiano" non ha mai trovato molto adepti nella sinistra. Durante la guerra fredda era molto comodo definire l'Italia come la "Bulgaria della NATO", una colonia americana incapace di una propria politica estera, mentre oggi molti preferiscono vederla come un paggio del nascente imperialismo tedesco. Si tratta di scelte comode che permettono di deresponsabilizzare i dirigenti socialisti e comunisti, prima complici e poi protagonisti delle politiche imperialiste dei governi romani. Una conoscenza approfondita della realtà dimostra invece il ruolo imperialista dell'Italia e contribuisce a spiegare perché l'Italia è oggi seconda solo agli Stati Uniti nell'impegno bellico. Perché è questa la realtà, anche se i media dimenticano di dircelo.

M. Baldassarri



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