unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n.21 del 13 giugno 1999

Soldate. Un mestiere come un altro

La scorsa settimana la Commissione di Difesa del Senato ha approvato un disegno di legge che permetterà alle donne di svolgere il servizio militare volontario già dal prossimo anno. La Commissione Difesa ha così anticipato di un anno il testo della riforma delle F.A. già approvato dalla camera, che faceva partire nel 2001 l'avvio del reclutamento femminile.

Si ipotizza che l'approvazione definitiva del ddl possa arrivare prima dell'estate ed i primi arruolamenti potrebbero così già partire dai primi mesi del prossimo anno.

Questa proposta di legge ha, in questo momento di guerra diffusa, un ruolo ben preciso: rendere nell'immaginario delle persone il mestiere del militare un mestiere come tutti gli altri, un lavoro cui tutti possono avere accesso senza distinzioni di sesso e pertanto un lavoro "normale".

Non è un caso infatti che la legge preveda per le donne soldato tutte le garanzie per la tutela della maternità in atto nel Pubblico Impiego ed afferma anche che debba essere rispettato il principio delle pari opportunità per l'accesso alle specializzazioni, ai gradi, alle qualifiche. Insomma un mestiere come qualunque altro della Pubblica Istruzione: come fare l'insegnante o l'infermiera.

Ovviamente il decreto legge è stata accolto da un coro favorevolmente unanime.

Invece a me non sembra affatto un passo avanti verso l'affermazione del diritto femminile.

Una militarizzazione più diffusa e più massiccia porta necessariamente a valori, linguaggi, simbolismo militare sempre più presenti, più usati nel linguaggio e nella vita di tutti i giorni, in definitiva valori sempre più "normali" e quotidiani.

Non sarà certo l'ingresso nell'esercito a dare alle donne una maggiore autonomia o una maggiore uguaglianza sociale.

L'uguaglianza intesa in questo modo non è certo un valore ed il potere oggi ha sempre più bisogno di consenso.

Militarismo, nazionalismo, sessismo hanno sempre proseguito tenendosi a braccetto e rafforzandosi a vicenda. L'introduzione oggi di donne nell'esercito vuole formalmente cancellare quest'unione, ma nei fatti ne rafforza il potere di dominio culturale.

La cultura determina comportamenti, ruoli, qualità. Assimilare la donna alla cultura di dominio, dove l'esercito ne è uno dei simboli più radicali, significa da un lato espropriarne e cambiarne la cultura e dall'altra dipingere di rosa paritario la facciata dei simboli di potere, rendendoli cos" più accettabili.

Se anche le donne riconosceranno il concetto di patria e aderiranno all'invito a "servirla", allora questo diventerà un pensiero più concreto, più accettabile, l'esercito un luogo più umano.

Ma per le donne i valori di territorio, cittadinanza, appartenenza ad una nazione sono sempre stati deboli. Sono sempre state le donne che hanno abbandonato il proprio paese per seguire il marito, non viceversa.

Le donne hanno inoltre affermato con forza, anche con il loro fermo rifiuto di tutte le guerre, che il nazionalismo genera morte. Abitiamo una lingua (la lingua madre, come si usa dire nel linguaggio corrente), non una nazione. Potremmo riconoscere una "matria", non una patria.

L'entrata delle donne nell'esercito produce per esse una maggiore complicità con le istituzioni, non una maggiore libertà. Riafferma che questo in cui viviamo è l'unico mondo con cui possiamo rapportarci, riafferma che le istituzioni non possono essere eliminate, dimenticate, distrutte, ma solo "pervase" dallo "spirito femminile".

Le donne vengono valorizzate, "fanno notizia", solo quando vengono assunte a ruoli maschili, vengono glorificate quando partecipano o generano guerre (pensiamo alle varie Tatcher o Albright). Le donne guerriere sono a pieno titolo sempre entrate a far parte della storia maschile.

Le donne che decideranno di entrare nell'esercito, ed entreranno in forma volontaria, per libera scelta affermeranno un senso di appartenenza, di lealtà allo stato.

Ma quale posto hanno le donne, i loro pensieri, le loro aspirazioni, la loro sessualità, in uno stato che ogni giorno le mette ai margini e tenta di ridurre al silenzio e all'obbedienza( vedi la recente legge sulla procreazione, l'attacco alla 194, e potremmo continuare per ore).

E' certo che per le donne coniugare parità e differenza ha significato cercare un dialogo con il mondo e a volte compiere anche delle scelte parziali. Ma i termini di parità e differenza devono diventare complementari nella conquista di un percorso di libertà, non di obbedienza e acquiescenza.

Le donne non sono mai state silenti e tolleranti di fronte al militarismo. E' necessario ribadirlo con forza.

Rosaria.



Contenuti UNa storia in edicola archivio comunicati a-links


Redazione: fat@inrete.it Web: uenne@ecn.org