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Da "Umanità Nova" n.21 del 13 giugno 1999

L'alibi dell'autodeterminazione
Gli Stati ricercano nuove forme di legittimità nel nazionalismo, nello sciovinismo, nell'etnicismo, nel tribalismo di parte...

La globalizzazione, colta da un punto di vista degli smottamenti nella sfera politica, provoca sino ad oggi un duplice scollamento: da un lato, estende il raggio di impotenza degli stati nazionali, non nel senso di un immediato deperimento (o estinzione marxiana) ma lungo una tendenza di snellimento in ragione delle funzioni prettamente politiche (ordine pubblico innanzitutto), mentre si registra una tendenza di smarrimento della presa su segmenti sempre più sostanziosi delle politiche che surdeterminano gli spazi di agibilità della sovranità dello stato nazionale (quindi non solo legati a processi economici e finanziari, quali il controllo della divisa nazionale o della massa fiscale, ma anche a strategie militari o comunicative).

Dall'altro lato, tale spaesamento di potere nelle élite nazionali induce a rintracciare fonti di legittimità al dominio su assi passionali che siano in grado di mobilitare l'opinione pubblica intorno allo stato stesso, alimentando particolarismi emotivi intorno a cui riorganizzare l'esistenza dell'entità sovrana, e quindi il ritaglio di privilegi sociali, politici ed economici (la privatizzazione delle risorse fiscali o l'intercettamento privato di aiuti esteri, per fare due esempi). E quale migliore leva se non il nazionalismo, lo sciovinismo, l'etnicismo, il tribalismo di parte (di clan, di famiglia)?

Detto così, il quadro è chiaro: chi agita quelle bandiere finge di eccitare animi resistenti alla globalizzazione intesa cioè occidentalizzazione forzata e violenta del pianeta, a livello politico (Usa e/o Nato gendarmi non richiesti) o economico o culturale (omogeneizzazione dei consumi, tipo McDonald's), mentre si pone in linea coerente con la strategia di coniugare capitali e stato, liberalizzando i movimenti dei primi per attrarli e rendendo autoritario l'esercizio del secondo, anche sotto vesti apparentemente democratiche ma tuttavia illiberali. Ossia, i leader riescono a farsi eleggere ma in una cornice di inesistenti garanzie civili, politiche e sociali. Così è stato per Ceausescu e per Milosevic, democraticamente eletti a presidenti di regimi illiberali e autoritari - senza tutele per le minoranze, soprattutto - al pari di altri modelli quali Singapore e l'Indonesia.

Se tale lettura è plausibile, un effetto "collaterale" imprevisto è la particolare combinazione di due principi internazionali ben riconosciuti e sanciti nel campo delle norme pubbliche, pure trascritte nella Carta delle Nazioni Unite: da una parte, la riaffermazione dell'intangibilità della sovranità di uno stato nazionale, de jure e anche de facto, nonostante la finzione nazionale prevalga quasi sempre sulla pluralità di usi, costumi, dialetti, addirittura lingue, e sulla composizione multietnica, e sebbene a livello extra-politico questa sovranità sia già intaccata da alcuni processi di globalizzazione. Tipicamente, la guerra del Golfo è avvenuta sotto egida dell'ONU perché uno stato sovrano, l'Iraq, aveva aggredito, violato le frontiere, invaso il territorio e asservito la popolazione "appartenente" ad un altro stato egualmente sovrano, il Kuwait, per cui l'operazione di polizia internazionale mirò a ripristinare lo status quo antea. Tale principio di difesa reciproca tra stati è un baluardo tuttora formalmente valido, tanto è vero che la NATO non ha dichiarato guerra alla Jugoslavia, ma si è sbarazzata della veste legale-formalistica passando alle vie di fatto, le uniche che possono azzerare una norma quando non risulta praticabile il percorso dell'autoriforma del sistema giuridico.

Dall'altra parte, le norme internazionali esaltano anche il principio di autodeterminazione dei popoli, sia attraverso la via della liberazione da un regime oppressivo straniero (l'inserimento di questo diritto aveva davanti agli occhi la situazione coloniale ancora vigente nell'immediato secondo dopoguerra), sia per via secessiva, con un'ampia mole di norme, principi, formulazioni giuridiche e giurisprudenziali che tentano di circoscrivere le modalità accettate e accettabili della secessione da uno stato sovrano per ritagliarsi un'altra sovranità separata e di delimitare preventivamente gli eventuali effetti deflagranti per un probabile effetto imitativo a cascata (ossia, non basta volere la secessione perché questa sia legalmente valida e quindi sostenibile con successo all'interno dell'agorà mondiale, giacché vige sempre l'implicita solidarietà tra stati, la cui comunità è unica fonte di riconoscimento del "nuovo arrivato").

A prima vista, il principio di autodeterminazione dei popoli non solo è contraddittorio con l'altro principio di intangibilità della sovranità degli stati, poiché un nuovo stato si forma a spese (parziali o totali) di un altro, a meno che non sia un inedito ordinamento su una nuova terra emersa improvvisamente dagli oceani in acque di nessuno. E comunque, quasi mai si tratta di un percorso pacifico e negoziato bilateralmente.

E tuttavia l'autodeterminazione dei popoli è divenuta parola d'ordine anche per chi non ha l'idea di costruire un nuovo stato, riconosciuto e quindi accettato come fratello dalla comunità internazionale degli stati (e non dei popoli, concetto giuridico vuoto). Mi riferisco alla vulgata rivoluzionaria di tanti movimenti terzomondisti di marca marxista e affine, nonché all'equivocità del termine "popolo" che si autodeterminerebbe, senza però una chiara analisi prospettica dell'ordinamento (e dell'ordine) che si viene a costituire, ossia una ennesima realtà statuale.

Questa preoccupazione sarebbe esclusivamente di segno libertario o addirittura anarchico - pregiudizievolmente diffidente alla forma-stato, o meglio ostile ad essa date le numerose lezioni della storia - se oggi non intervenisse, appunto, un effetto di cortocircuitazione di quel duplice processo di globalizzazione a livello politico, che ostacola una solidarietà verso passaggi di autodeterminazione di popoli guidati, diretti e gestiti da élite minoritarie fanatiche, nazionaliste, etniciste (cioè legate all'idea potenzialmente genocida della purezza monoetnica sul territorio), scioviniste, xenofobe, in spregio a qualsiasi accezione di tutela dei diritti umani dei singoli e delle comunità.

Il rischio che oggi si corre è infatti solidarizzare, quando non sostenere, nei riguardi di processi di autodeterminazione autodichiarati tali che mirano a peggiorare le condizioni e le garanzie civili, sociali e politiche di cittadini, stranieri, minoranze, apolidi e via dicendo. Si rompe cioè la presunzione di progressività per definizione dell'autodeterminazione, riconducendo il tutto, senza ideologismi preconcetti, all'osservazione puntuale e caso per caso delle strategie emancipative che, sempre più di frequente, concernono i popoli non come soggetti protagonisti, ma come ostaggi e massa di manovra per nuove élite più o meno barbare (ossia estranee al bon ton politico, che già quanto a cinismo, violenza e ipocrisia non subisce interruzioni sin dall'epoca della fondazione degli stati sovrani nazionali agli albori dell'era moderna).

Se l'ingerenza umanitaria per tutelare i diritti umani di popoli sottomessi a regimi violenti cozza contro il principio dell'intangibilità della sovranità statuale, pur caratterizzati da ampie minoranze nazionali sottomesse, come è il caso peculiare dei Balcani - ma che vale per ogni comunità puzzle, dall'Africa all'Asia, giacché nessun stato è puramente nazionale con unica lingua e unica componente etnica - la solidarietà umanitaria che la sostiene cozza contro le intenzioni di quelle élite per le quali l'autodeterminazione riguarda solamente la propria affermazione contro tutti, e per nulla l'autodeterminazione delle popolazioni considerate come individui singolari, differenti gli uni dagli altri, ma eguali per quanto concerne la titolarità di diritti e garanzie sociali, politiche e civili.

Se ciò non viene affatto considerato, l'alibi del sostegno a principi (e quindi a pratiche spesso violente) di autodeterminazione si smaschera per quello che è: relazioni tra stati esistenti e stati nascenti, con intreccio di interessi tra sovrani viventi e sovrani aspiranti tali. E quanto ai popoli, beh, essi possono essere deportati al di qua o al di là di frontiere nazionali, secondo le esigenze della formazione dei nuovi stati a sovranità illimitata. Quanto ci si di liberatorio per i popoli in oggetto è una valutazione osservabile in tempo reale nei Balcani, in cui si contrappongono istanze nazionaliste per definizione assiologica autoritarie, intolleranti, illiberali. Cadere nella trappola dello schieramento da tifo calcistico o della neutralità equidistante è un segno del collasso della critica politica, che pure dovrebbe essere capace di individuare ragioni e argomenti forti per esprimere la netta opposizione contro ogni élite politica, denunciando la manipolazione di sentimenti nazionali piegati all'esigenza di inaugurare una nuova sovranità non meno dominante di quella vecchia.

Dominante su chi? ma sulla "propria" popolazione di cui le nuove entità si appropriano come oggetti, come cose, spacciando il dominio per autodeterminazione e per liberazione. Chissà cosa ne avrebbe pensato Orwell!

Salvo Vaccaro



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