Da "Umanità Nova" n.22 del 20 giugno 1999
Tregua nei Balcani
Il diritto del più forte
La tregua che segna la cessazione delle operazioni belliche nei Balcani apre di
fatto la via ad un'epoca nuova. Non ingannino le mosse diplomatiche che hanno
cercato di riportare la Russia dalla parte occidentale; né inganni il
ruolo del Consiglio di Sicurezza dell'ONU che ha meramente registrato quanto
deliberato dal G8, nuova giunta di governo mondiale (da cui è esclusa la
Cina, almeno per ora, che pure è uno dei 5 membri permanenti con diritto
di veto).
Eravamo abituati a pensare che l'era dei diritti umani per tutti si giocasse
sul piano dei... diritti, ossia sul piano della legalità, delle
procedure e della sostanza, vale a dire sull'autoriforma di un sistema
giuridico quando ci si accorge che le norme non rispondono più al comune
sentire. Ebbene, nulla di tutto questo. La guerra della NATO ha riportato in
pista - se mai ne era uscita fuori - la forza della violenza militare come
unico strumento per porre di fatto un cambiamento politico, sul quale poi il
diritto arranca per recuperare legittimità adeguandosi
disciplinatamente.
Per modificare il quadro degli equilibri internazionali, per estendere la
funzione della NATO oltre i limiti dell'art. 5 del suo stesso trattato
istitutivo (difesa integrata di tutti i partner in caso di aggressione di uno
solo di essi), per dare al mondo un assetto unipolare e non più
unimultipolare (ossia un'unica superpotenza e basta, senza il corollario
fastidioso di medie potenze regionali, che le si debbono allineare), allora per
conseguire questi risultati per il 21deg. secolo si è usata la classica
via delle armi, senza tante cerimonie e discussioni pubbliche, senza ricercare
consensi.
Ciò la dice lunga sulla volontà di esportare la democrazia
nell'assetto del nuove ordine mondiale, come pure blaterano gli stupidi leader
europei convinti che le democrazie risolvano i conflitti senza ricorrere alla
violenza esterna (quella interna sì, come testimonia l'ultradecennale
strategia della tensione, almeno dal caso Mattei a Ustica).
Come ho avuto modo di esporre in interventi precedenti, la sorte di albanesi e
serbi è indifferente ai reali moventi della guerra internazionale
scatenata; il Kosovo è un buon pretesto perché si incastra nel
ginepraio dei Balcani, ma dei profughi albanesi e del controesodo serbo pochi
si curano se è vero che hanno distrutto e inquinato il territorio nel
quale dovrebbero vivere da separati in casa.
La ricostruzione sarà fatalmente un business per le stesse militari, i
cui PIL cresceranno sulle macerie altrui. Ma si sa, il pregiudizio razziale non
contagia solo gli sciovinismi nazionalistici accesi ma anche il business
manageriale dei ricchi avverso i poveri sfigati (nel duplice senso aggettivato
e sostantivo della parola "poveri").
Salvo Vaccaro
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