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Da "Umanità Nova" n.23 del 27 giugno 1999
Alle origini del conflitto
Il groviglio balcanico
Commentando nel dicembre 1995 gli accordi di Dayton scrivevamo che quella
voluta dagli americani e sottoscritta dai delinquenti che capeggiavano le bande
terroristiche serbe, croate e musulmano-bosniache era una pace che preparava la
guerra. Non ci sbagliavamo. Se è vero che in Bosnia la guerra non
è ripresa - ma solo perché la regione è presidiata da
circa 30mila soldati della NATO e russi - è altrettanto vero che proprio
quegli accordi hanno favorito l'acuirsi della crisi kosovara. E' infatti
indubbio che i settori radicali del nazionalismo kosovaro-albanese hanno tratto
dagli accordi di Dayton la convinzione che l'uso della forza avrebbe favorito
l'intervento militare della NATO e quindi, alla lunga, il successo delle loro
aspirazioni ad un Kosovo indipendente, primo passo verso la costruzione della
"Grande Albania".
Come in Bosnia, anche nel Kosovo l'intervento militare della NATO è
stato scientificamente preparato attraverso un uso mediatico ed emozionale
delle stragi. Tutti ricorderanno l'importanza fondamentale della strage del
mercato di Sarajevo del 28 agosto 1995. Quella strage, addebitata ai serbi,
fece montare un'ondata di sdegno in tutto l'occidente innescando il meccanismo
che portò ai bombardamenti della NATO contro i serbo-bosniaci del
settembre 1995. Oggi sappiamo che la granata assassina fu lanciata dai
musulmani e non dai serbi.
In Kosovo il meccanismo è stato simile: nell'inverno 1998-99,
approfittando della presenza nella regione dei duemila osservatori dell'OSCE,
l'UCK riconquista le posizioni che aveva perso, dopo la fallimentare offensiva
dell'estate 1998. A dicembre il 60% del territorio kosovaro è ormai
"zona liberata" dove i serbi non abitano più. Ma adesso i nazionalisti
albanesi non cercano lo scontro aperto con esercito e polizia serba. La loro
tattica si fa più astuta: colpiscono con imboscate effettuate da
pattuglie rapide a ritirarsi. Decine di serbi vengono rapiti e scompaiono,
alcuni vengono torturati. I serbi sono esasperati e furiosi. E' evidente che la
strategia dell'UCK è quella di provocarli. Agli inizi di gennaio vengono
scoperte due fosse comuni con i corpi di dieci e quattordici serbi. La stampa
occidentale quasi ignora i massacri. Il 15 gennaio arriva, puntuale, la barbara
risposta serba: a Racak, vengono rinvenuti i corpi di 45 albanesi, orrendamente
mutilati. Alcuni ipotizzano un particolare non secondario: solitamente i serbi
uccidono senza mutilare. Alcuni ipotizzano che le mutilazioni siano state
operate dai guerriglieri dell'UCK che avevano riconquistato Racak prima del
rinvenimento dei corpi. Comunque sia, le immagini dei corpi orrendamente
mutilati rinvenuti a Racak fanno il giro del mondo. Il massacro di Rack svolge
nella crisi del Kosovo la stessa funzione della strage al mercato di Sarajevo.
Il gruppo di contatto decide di riprendere in mano la questione kosovara,
imponendo alle parti di partecipare ad un negoziato ad oltranza che si sarebbe
dovuto concludere con la pace o con la guerra. Gli avvenimenti successivi sono
noti.
Paul Handke ha scritto che "la guerra nella ex Jugoslavia è il paradigma
della generale menzogna in cui viviamo". Occorre allora difendersi "andando -
come sostiene Carlo Magris nella prefazione ad un bellissimo libro di Paolo
Rumiz sulla tragedia jugoslava - a svelare i doppi giochi, le
complicità, il continuo rovesciamento della verità, il quadro
locale e mondiale di una carneficina mostruosa che si veste di odio tribale ma
che in realtà nasce da sofisticate manipolazioni e tortuosi interessi".
Di fronte ai massacri, alla morte, al terrore, ai fiumi di popolazioni
disperate in fuga "occorrono insieme pietà e freddezza e anzitutto
l'umile fatica di andare a conoscere le cose, di studiare la realtà".
Perché nel groviglio balcanico la verità è semplice ma
esige un minimo di riflessione elementare e molta, molta onestà
intellettuale.
E' questo il metodo che dovremo seguire nei prossimi mesi per capire gli
sviluppi della tragedia kosovara.
A. Ruberti
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