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Da "Umanità Nova" n.24 del 4 luglio 1999
Centenario Fiat
La loro festa, le nostre lotte
La festa dell'impresa
La Fiat si appresta a festeggiare il suo centesimo compleanno (che cade
precisamente l'11 luglio) con una serie di iniziative autocelebrative che
combinano due aspetti caratteristici. Da un lato celebrano l'avvenimento con
una festa interclassista, riducendolo ad un fenomeno salottiero, mondano e
popolare, dall'altro, con una serie di studi, ricerche, convegni, supportati
anche dal "peso" dell'Archivio Fiat aperto a Torino, tracciano un bilancio
conclusivo di questo secolo dal punto di vista della storia dell'impresa (si
vedano in merito i due volumi recentemente pubblicati dal Mulino, Grande
impresa e sviluppo italiano. Studi per i cento anni della Fiat, a cura di
Cesare Annibaldi e Giuseppe Berta).
Una storia di un'azienda capitalistica che è cresciuta, ha interagito
con i vari regimi politici che si sono alternati alla guida del nostro paese
conoscendo, durante il suo sviluppo, anche momenti di tensione e di conflitti,
tutti però risolti e in qualche modo superati; sicché, oggi, la
Fiat può e vuole presentarsi con la faccia rassicurante, buonista e
pacificata. In questo quadro interpretativo-riassuntivo, il conflitto, la lotta
di classe, come si diceva una volta, trovano ancora un loro spazio, ma è
uno spazio storico, nel senso che si vuole trasmettere l'idea di un qualcosa
che appartiene al passato, un passato che non ritornerà. Inoltre, le
tensioni sociali e i conflitti indotti dalla fabbrica, vengono depotenziati e
ridotti a problemi e difficoltà relazionali tra staff aziendale e
sindacati, tra ufficio del personale e lavoratori. I lavoratori, secondo la
teoria dell'impresa, altro non sono che uno dei fattori della produzione, una
delle tante variabili dipendenti, che l'azienda organizza e coordina al meglio
al fine della produzione. Conflitti e tensioni, che non sono negati, vengono
affrontati, risolti e poi interpretati all'interno della logica aziendale,
diventano anch'essi parte della storia generale dell'impresa, come le
innovazioni tecnologiche, la ricerca di nuovi mercati, l'aumento della
produttività, gli esuberi di manodopera, ecc.
Questo modo di fare la storia della Fiat oggi, che a nostro parere è
vincente, si contrappone ad un altro modo di intendere la storia che si era
affermato nel nostro paese a partire dal Secondo dopoguerra incentrato
sull'idea che sia esistita una storia del movimento operaio. In questo senso la
storia della Fiat era la storia dei lavoratori della Fiat, delle loro lotte,
dei loro organismi di base (consigli di gestione, di fabbrica, assemblee
autonome, dei delegati) sindacali e di partito. Oggi tutto quell'interesse e
quell'attenzione per questo tipo di storia non c'è più.
Nell'introduzione al saggio di più autori intitolato Tra fabbrica e
società. Mondi operai dell'Italia del `900 (Annali Feltrinelli 1999)
Stefano Musso sostiene se in passato si era verificato un eccesso di interesse
verso la Fiat, Torino, Mirafiori, la classe operaia, oggi vi è invece un
eccesso di disinteresse.
La festa agli operai
Un solo esempio di come i tempi siano cambiati ci viene dato dal mito di
Mirafiori: negli anni Settanta Miarfiori era descritta come il centro
più avanzato della lotta di classe e l'avanguardia dell'intero movimento
operaio italiano, oggi è significativo che quello stabilimento sia
diventato non più un simbolo della lotta di classe e della storia del
movimento operaio, ma l'emblema dell'identità italiana, così
s'intitola infatti la collana di libri de Il Mulino di Bologna presso la quale
ha visto la luce il lavoro di Giuseppe Berta, intitolato per l'appunto
Mirafiori.
Se anche nel campo storiografico alla fine ha trionfato la storia dell'impresa
ci deve essere una ragione, qualcosa deve essere accaduto se, fino ad ora, di
fronte alla celebrazione del centenario della Fiat un solo libro è
venuto a ricordarci, già fin dal titolo, che anche Gli operai della Fiat
hanno cent'anni (Lorenzo Gianotti, Editori Riuniti). Forse per una volta il
destino cinico e baro può giocare a nostro favore offrendoci, grazie
alla ricorrenza di un altro anniversario, spunti da cui muovere per comprendere
il collasso della storiografia operaia alla Fiat. Mi riferisco al fatto che
quest'anno è anche il trentesimo anniversario del 1969, dell'autunno
caldo e della massiccia mobilitazione operaia che sconvolse la produzione e i
reparti degli stabilimenti della Fiat.
Ad ognuno le sue ricorrenze
Mentre loro si apprestano a celebrare l'11 luglio, data di fondazione della
Fiat, noi dovremmo anticiparli ricordando il 3 luglio, giorno della rivolta di
Corso Traiano a Torino.
Quella manifestazione, indetta dall'assemblea autonoma operai e studenti,
rappresentava il momento culminante di due mesi di lotta dura (selvaggia
dicevano i giornali torinesi perbenisti) che aveva sconvolto i reparti di
Mirafiori con scioperi improvvisi, a scacchiera, non proclamati dal sindacato,
gestiti direttamente dall'organizzazione autonoma degli operai in
collaborazione con gli studenti. Quelle lotte, che si riproporranno dopo le
ferie con l'autunno caldo, mettevano in crisi un sistema gestionale
dell'impresa Fiat. Complessivamente nel 1969 ben 20.000.000 di ore di sciopero
si erano consumate alla Fiat, di queste 9.000.000 furono effettuate in
quell'anno nei tre maggiori stabilimenti della Fiat torinese, Mirafiori,
Lingotto e Rivalta. L'incremento delle ore di sciopero che si registrò
nel 1969 raggiunse un indice così elevato da non trovare riscontri
simili né in vertenze contrattuali precedenti né in quelle
successive. Le lotte arrivavano al termine di una crescita occupazionale e
produttiva senza precedenti. I dipendenti Fiat degli stabilimenti torinesi dai
50.000 che erano nel 1950 diventavano 158.000 nel 1968 e 170.000 l'anno
seguente. Di questi nel 1969 quasi cinquantamila lavoravano a Mirafiori,
più di undicimila nel nuovo stabilimento di Rivalta aperto nel 1967 e
più di seimila al vecchio impianto del Lingotto. Le auto prodotte per
ogni operaio passavano dal 2,1 % del 1950 all'11,8% del 1968, il numero di
vetture prodotte in un anno saliva da 118.000 a 1.470.000, circa seimila al
giorno.
Negli stabilimenti torinesi lavorava una classe operaia composita, una parte
apparteneva ancora al vecchio ceppo dell'operaio di mestiere torinese, altri
invece erano lavoratori delle linee di montaggio, non qualificati, nella
stragrande maggioranza meridionali. Già a cavallo degli anni Cinquanta e
Sessanta a Mirafiori gli operai che possedevano la prima categoria erano
passati dall'8 al 6,5%, quelli di seconda categoria dal 23 al 16%, quelli di
terza categoria dal 67 al 73%.
L'aumento del lavoro ripetitivo, dequalificato, tipico delle linee di
montaggio, si accompagnava ad una rotazione della manodopera abbastanza
elevata. Il 10% ogni anno lasciava la Fiat e cercava un altro lavoro, circa
1000 operai al mese si licenziavano, su 100 nuovi assunti 40 abbandonavano dopo
poco. L'assenteismo ruota attorno al 12-13%, che voleva dire 5-6 mila operai
che ogni giorno non si presentavano in fabbrica. D'estate la percentuale
toccava anche punte del 25%. Si trattava in media di tre-quattro giornate di
mutua al mese a cui i lavoratori ricorrevano per staccare un attimo, per
riposarsi, "per non morire" dicevano tra di loro, soprattutto quelli addetti
alle linee di montaggio, costretti ad un lavoro dequalificato, massacrante dal
punto di vista fisico e psicologico, perché monotono, ripetitivo, sempre
uguale. L'epoca dell'operaio produttore, professionale, che amava il suo
lavoro, orgoglioso del suo saper fare, ben descritto nelle testimonianze
riportate nel libro recente di Donato Antoniello Da Mirafiori alla S.A.L.L.
(Jaca Book, 1998) stava tramontando. I nuovi operai di linea non si
identificavano certo col lavoro e verso quel tipo di lavoro e di fabbrica
sviluppavano un atteggiamento di rifiuto, di odio e disprezzo.
Quelle lotte, quella nuova composizione di classe metteva in crisi la cultura
dell'impresa, una crisi profonda che travolgeva e rimodellava le stesse
strutture della rappresentanza operaia di base e sindacale. Quelle lotte, dopo
gli anni del boom, del consumismo, del neocapitalismo integrante la classe
operaia, dimostravano che lottare si poteva ancora, che lottando si ribaltavano
rapporti di forza e gerarchici che sembravano consolidati per l'eternità
Da quello scontro, iniziato allora e protrattosi per tutti gli anni Settanta,
la Fiat e il movimento operaio torinese ne uscirono profondamente trasformati.
Interrogarsi su quelle trasformazioni, chiedersi perché e come sono
avvenute, sottolinearne i passaggi di politica sindacale, partitica e aziendale
che le hanno favorite od ostacolate, significa ricostruire i percorsi che hanno
preparato la sconfitta di quel movimento operaio, sconfitta che ha consentito
la ristrutturazione dell'impiego della forza-lavoro e del mercato del lavoro,
dell'organizzazione della produzione, favorendo la ripresa dei meccanismi di
accumulazione capitalistica dopo la loro messa in discussione negli anni
Settanta.
Diego Giachetti
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