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Da "Umanità Nova" n.26 del 5 settembre 1999

Sofri e Baraldini
C'Ë poco da festeggiare

Le due vicende, ciascuna per conto proprio, sono parte di un grande scenario complessivo su cui si sta giocando ormai da tempo una defatigante partita politica.

Le due questioni non hanno altro punto in comune se non la coincidenza dei tempi. Eppure la `semilibertà' a Sofri e il rientro in Italia della Baraldini sono stati vissuti quasi come eventi riconducibili ad un unico codice di segnali. Quindi sono stati accompagnati dal consueto coro massmediologico, ossia le così dette `polemiche' (la notizia non è più il fatto in sé, ma conta solo la dialettica che si instaura con l'occasione nell'ambito del ceto politico). Lo stile aggressivo e squadrista, oppure quello soltanto ignorantello utilizzati dai vari esponenti del Polo e sentitamente di A.N. contro questi provvedimenti di `giustizia', considerati filo-terroristi (???!), non ci inducono certo ad arruolarci nel partito governativo dei soddisfatti o dei festeggianti. Intanto c'è da scommettere che gli stessi beneficiati - già nel momento in cui stiliamo queste righe - abbiano attenuato di molto quello stato di leggera euforia che pure sembrava trasparire in quelle prime ore della, chiamiamola così, transizione verso diversificati contesti e prospettive. Adriano Sofri ad esempio, intervistato da "Il Manifesto", ha sintetizzato mirabilmente il suo stato d'animo di intellettuale al domicilio coatto: "Non ho giramenti di testa. E' una battuta troppo facile dire cosa altro mi gira...". Dall'altro lato a Silvia Baraldini, con il dovuto tatto, è stato già fatto presente che potrà uscire da Rebibbia prima del 2008 solo per i tempi strettamente necessari a partecipare ai funerali della mamma ora 84enne.Premesso questo si deve rilevare però come le due vicende siano, ognuna per conto proprio, parte di un grande scenario complessivo su cui si sta giocando ormai da tempo una defatigante partita. In palio ci sono due questioni insolute e spinose che attendono esiti definitivi che, per forza o per amore, dovranno essere compatibili con il processo in atto di modernizzazione del paese e della sua classe dirigente. Esse sono: in ambito internazionale, il ruolo e la collocazione dell'Italia fra le potenze mondiali specialmente in rapporto alla affidabilità verso il partner più importante, gli U.S.A. In secondo luogo c'è il passato che non passa, ci sono da gestire e magari storicizzare trenta-quarant'anni di storia oscura di trame e stragi che hanno visto il coinvolgimento, diretto, dell'apparato statale italiano.

Su quest'ultimo aspetto, pur volendo lasciare da parte ogni pregiudizio ideologico, l'esperienza dei fatti insegna ad essere pessimisti. Pessimisti per quanto riguarda l'esito giudiziario di processi in replica, della specie di quello a cui saranno prossimamente sottoposti gli ex-esponenti di L.C., ai fini del raggiungimento di una Verità, almeno plausibile se non vera. La colpevolezza di Sofri, Bompressi e Pietrostefani in merito a qualsiasi responsabilità nell'uccisione del commissario Calabresi resta inesistente e comunque tutt'oggi indimostrata, assurda nella sua stessa formulazione. Ma questo non è il punto. Come in un gigantesco domino si deve impedire la caduta anche di un solo elemento, pena l'innesco incontrollabile di una catena di reazioni. Nello specifico può anche darsi, e ce lo auguriamo di cuore, che le ingiustizie patite dai tre siano riscattate da una sentenza loro favorevole. Di certo, c'è da temere che nessuno abbia voglia di fare luce davvero sull'omicidio Calabresi. Di certo gli `amici' hanno già mandato a dire ai processandi, attraverso i consueti tramite, di "non accettare caramelle da sconosciuti". Di certo una soluzione "all'italiana" risulterebbe la più accettabile e sostenibile dal sistema. Il legame tra gli episodi criminosi del 1972, del 1973 e quelli del 1969 (sentitamente la strage di piazza Fontana e l'omicidio Pinelli) appare allora in tutta la sua drammatica attualità. Calabresi, già preso di mira dall'opinione pubblica di sinistra per le innegabili responsabilità sulla morte dell'anarchico milanese, come è noto, affrontò stanco, assai contrariato e senza entusiasmi il processo a Lotta Continua. Calabresi, dopo aver spinto la sua abnegazione oltre i confini del lecito e con grandi rischi personali, non era forse persuaso del tutto della necessità di farsi da parte in buon ordine, e magari di `immolarsi' in silenzio e, per di più, senza il riconoscimento dei propri meriti. Sullo sfondo pesavano i rapporti, non sempre improntati a sintonia e spirito di collaborazione, fra la Questura di Milano e l'Ufficio affari riservati del ministero a Roma. Ed in particolare v'è da sottolineare che gli uomini di quest'Ufficio, sotto la direzione di un certo Federico Umberto D'Amato, si erano occupati con grande impegno, e in prima persona, della gestione degli informatori nell'ambiente anarchico milanese e della confezione della falsa pista Valpreda. Questa rilettura dei fatti non pretende alcuna originalità e può essere benissimo desunta anche da alcuni atti delle commissioni parlamentari. Ora bisognerà domandarsi il significato di certi ritrovamenti di carte, avvenuti nel 1996, di quello che giornalisticamente è stato definito "l'archivio segreto del Viminale". Bisognerà chiedersi il perché di tanta tempestività nel voler regolare e limitare drasticamente, con un disegno di legge oggi in via d'approvazione, l'accesso pubblico a determinati fondi archivistici. Ci sono state proposte governative, di largo seguito, come quella di distruggere documenti che contengano informazioni "non necessarie alla sicurezza dello Stato". Per questo, siamo molto scettici sul presente e non ci aspettiamo niente di buono dal futuro, almeno per queste vicende. Trent'anni fa con i nostri slogan, che potevano apparire ingenui e semplicistici, abbiamo colto nel segno. Forse neppure ci aspettavamo di avere ragione fino a questo punto. Alle istituzioni non ci pare giusto dover chiedere niente, agli operatori frettolosi della `grande' informazione neppure. Forse a questi ultimi si potrebbe raccomandare ma senza obblighi - se non il rigore o l'onestà intellettuale - almeno di mantenere un contegno di rispetto che sia uguale per tutti i morti ammazzati.

Quanto all'altra storia contestuale, ossia il rientro della Baraldini in Italia, questa deve senz'altro essere interpretata come momento di definizione e tappa di un processo di lungo periodo nell'affermazione di un ruolo positivo dell'Italia nel contesto internazionale. Il ministro Diliberto ha negato qualsiasi nesso di scambio diretto fra questa benevola concessione americana e la faccenda scandalosa della strage impunita del Cermis. La cosa può essere verosimile, nel senso cioè che le garanzie fornite dal governo italiano per condurre l'operazione a buon fine sono state talmente tante (e vessatorie, oltre che portatrici di assurde disparità di trattamento per la detenuta estradata) da far ritenere il `contentino' come una sorta di ennesima messa alla prova, sulla fiducia, della affidabilità dell'Italia. Non ci pare davvero il caso di definire tutto questo quale rapporto di reciprocità del tipo "do ut des", alla pari.

Ciò per dire che gli atteggiamenti servili evidenziatisi sul Cermis, e soprattutto durante i bombardamenti `intelligenti' sulla Serbia, sono stati ricompensati a dovere: con l'imposizione di una vera "prova di coraggio", in barba alla stessa legislazione carceraria italiana.

Quindi la modernizzazione, o se si vuole l'edificazione di un "paese normale", dovrà passare anche da questi punti obbligati che oggi sono richiamati dalla contingenza attuale: storicizzare il passato che non passa, dare all'Italia quel ruolo di prestigio nel campo militare e della politica internazionale che non gli competerebbe ma che è fortemente voluto dalla nuova classe dirigente. Il tutto salvaguardando la continuità istituzionale come bene supremo, a discapito di qualsiasi barlume di verità vera o di giustizia giusta.

Giorgio Sacchetti



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