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Da "Umanità Nova" n.28 del 19 settembre 1999

Timor Est
Dietro i massacri

Il Vaticano alla conquista dell'Oriente

Se uno dei parametri che spesso si usano per spiegare i focolai di conflitti e guerre è quello economico, il caso di Timor non offre indicazioni convincenti in questo senso: tolto un discreto bacino di estrazione del petrolio fuori costa verso l'Australia, l'isola è infatti sprovvista di ricchezze tali da attirare l'attenzione dei rapaci del capitalismo.

Il discorso si rovescia completamente se invece si prende in considerazione l'altro motivo alla base di tutte le conquiste, il controllo sulle persone. E si comprende come un territorio anonimo e fuori mano possa diventare centrale per i professionisti della conquista di anime, a costo di contribuire e farlo diventare permanente focolaio di guerra. L'unico polo di stabile regno della Chiesa romana in Oriente sono le Filippine, il resto sono piccoli insediamenti di frontiera, di cui Timor è di gran lunga il più importante.

Il calderone indonesiano

Per comprendere come si è arrivati a questi ultimi fatti di sangue è però necessario spendere alcune parole sull'assetto generale dell'Indonesia, un colosso di circa 200 milioni di abitanti, che popolano oltre 17 mila isole e isolette, di razza, cultura, lingue, costumi molto diversi fra loro. Il collante di questo grande calderone fino all'ultima guerra mondiale era stata la dominazione olandese, dedita al saccheggio della foresta pluviale, delle spezie e delle materie prime estratte dal sottosuolo. Nel '47, dietro forte pressione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna su un'Olanda che stentava a rimettersi in piedi dopo gli oltre tre anni di occupazione tedesca, all'insegna della "decolonizzazione" mirata a far posto alla dominazione per mezzo dell'economia, delegando alle borghesie locali il compito di mantenere soggetti gli individui, su di esso venne instaurata una specie di confederazione, che nel giro di qualche tempo divenne un vero e proprio stato "nazionale".

Il personaggio che portò a termine l'operazione, Sukarno, già collaboratore degli invasori giapponesi in funzione anti-olandese, ormai padre della patria indonesiana, nel giro di un decennio venne però scaricato dai suoi sostenitori olandesi, inglesi e americani perché troppo "democratico", dacché tentava di mantenere il regime aperto anche alle forze di opposizione che si richiamavano chiaramente al comunismo e al maoismo. Erano i tempi del Viet Nam, e nel fianco sud occorrevano dei servitori più fidati, e dunque il potere passò nelle mani dei militari, con - si è stimato, a seconda delle fonti - uno/due milioni di morti per l'eliminazione dei focolai "democratici" e "comunisti". Il subentrante Suharto però, come ogni dittatore, mantenutosi al potere quasi 30 anni, non ha potuto far a meno di piazzare i membri della propria famiglia e i protetti nei settori chiave dell'economia ove, pur lasciando che il capitale occidentale e asiatico rapinasse a man salva le ingenti risorse del territorio, ha combinato l'obbedienza al padrone capitalista con l'arricchimento per sé e i suoi.

La grande crisi delle borse d'oriente di tre anni orsono ha causato la caduta della famiglia Suharto, ed una grande depressione ha investito le popolazioni delle grandi città e delle isole principali, che però non sono andate molto oltre scagliarsi contro il piccolo speculatore più a portata di mano, nella fattispecie i bottegai e gli usurai immigrati di origine cinese. Da allora sul paese pesa un clima di incertezza, con un ex fedele di Suharto, Habibie, che dovrebbe condurre alla transizione "democratica", ed il forte esercito, unica fonte di coesione reale della nazione, nelle mani del generale Wiranto. Le forniture militari (particolarmente unità navali e mezzi leggeri e antiguerriglia) di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Svizzera, Svezia, Germania, Italia ecc. hanno comunque continuato a venir mantenute e soltanto ora, in pieno eccidio a Timor, sembrano temporaneamente sospese (alcune).

Timor Est, Papua Occidentale (Irian Jaya), Bali, le Sulawesi (Celebes), Aceh da quando è caduto Suharto hanno intensificato le iniziative per rendersi indipendenti, o almeno acquisire alcune forme di autonomia, a seconda dei casi, ed uno dei primi nodi a venire al pettine è stato Timor.

Un'isola mai domata

Timor, con una popolazione intorno ai 700.000 abitanti, nella parte orientale dal '500 fino ai primi anni '70 di questo secolo era una colonia portoghese, mentre la parte ovest era olandese, poi indonesiana. Caduta la dittatura in Portogallo, il territorio rimase per qualche tempo in una specie di limbo finché nel '75 Suharto, forte del sostegno americano, ne decretò l'annessione. Henry Kissinger, all'epoca segretario di stato americano, che era stato in visita nel paese poco prima dell'invasione, ne è generalmente indicato come lo sponsorizzatore: lo stesso in seguito "abbandonata la politica" sarebbe diventato dirigente della Freeport McMoRan, una delle multinazionali americane che su un altro territorio egualmente occupato dagli indonesiani, Papua Occidentale, sta rapinando migliaia di tonnellate di rame e oro, nella devastazione più completa dell'ambiente e dei diritti umani.

Anche quando era ancora portoghese Timor denotava una scarsa governabilità, con capi popolo difficili da sottomettere. Inoltre nel periodo delle "purghe" indonesiane, non pochi profughi vennero a trovarvi rifugio, e fra loro anche membri della guerriglia.

E la Chiesa romana, trovandosi in territorio di frontiera, si è ben guardata di predicar loro e alle popolazioni sempre suscettibili di conversione la litania della sottomissione che recita nei paesi occidentali, o come in Polonia dopo il crollo del muro (dove è finita Solidarnosc?). Anzi la sua gerarchia, abituata a giocare su più tavoli, mentre da una parte come in Chiapas, alla base sostiene la rivolta e manda convinti missionari ad evangelizzare i superstiziosi, dall'altra investe azioni nelle società petrolifere, minerarie, della gomma, del legname e delle sementi e gioca in borsa per sostentarsi adeguatamente in questa valle di lacrime. La sua sapiente regia ha consigliato di mantenere un delegato presso l'ONU anche nei tempi più difficili ed ha contribuito a far restare aperto il caso Timor Est a livello internazionale.

Dalle ritorsioni sanguinose alla "punizione esemplare"

Il 30 agosto un referendum temuto e annunciato da mesi si è pronunciato per l'autonomia e le sue conseguenze, in termini di ritorsioni violente da parte di chi non vuol perdere, erano attendibili: in questi 25 anni di dominio, il potere indonesiano ha in ogni modo incoraggiato l'immigrazione di cittadini più fidati nell'isola, di cui molti sono andati ad infoltire una milizia parallela alle forze di occupazione militare. E' bastato fornire un pretesto a queste che i morti sono stati centinaia. Dili, la cittadina principale dell'isola, che molti quotidiani nostrani enfaticamente non hanno esitato a chiamare pomposamente "capitale", ancora mentre scriviamo è sotto la permanente minaccia di bande armate di machete (ma non solo), che hanno provocato la fuga della popolazione.

Eppure a Timor sono stazionate in permanenza truppe sufficienti a garantire il controllo totale (più d'una volta si è parlato di quasi 100.000 militari impegnati). Dunque se eccessi vi sono, si tratta di episodi desiderati ed attesi. Il messaggio del potere centrale deve essere chiaro: chi punta alla disunione della "nazione indonesiana" va sterminato. I movimenti autonomisti delle isole "ribelli" ne tengano debito conto.

Ora, con il papa che tuona dal suo pulpito, dal quale finalmente può vantare dei martiri con tanto di sangue versato e teste mozzate, con Clinton che gli fa eco tirando un po' le orecchie ai cattivelli giavanesi, speriamo che la situazione non degeneri come con l'Iraq e il Kosovo. L'ultima cosa che possiamo augurarci, è che sull'esempio di come è avvenuto con Saddam e Milosevic, la prossima mossa del grande capitale consista nel "punire in modo esemplare" Wiranto o Habibie... bombardando Giacarta.

A. Nicolazzi



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