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Da "Umanità Nova" n.28 del 19 settembre 1999

Dibattito
Reddito di cittadinanza e Tobin tax

Ritengo che l'articolo di Peter Schrembs "Consumare: il mestiere di domani" apparso sul numero 27 di UN sollevi alcune questioni decisamente interessanti e che meritano di essere riprese.

Peter Schrems, infatti, solleva alcune precise critiche alle proposte di reddito di cittadinanza che da qualche tempo circolano in settori della sinistra moderata ed estrema come risposta che si vuole forte alle politiche neoliberali dei governo dei paesi industrializzati.

Se ho correttamente inteso l'articolo egli fa riferimento alla possibile applicazione di una simile misura alla Svizzera e, cioè, ad un paese piccolo, ricco e con un tasso di disoccupazione in crescita ma ancora relativamente modesto.

Può valere la pena di valutare la proposta in una prospettiva più ampia.

La proposta del reddito di cittadinanza è, di norma, legata a quella dell'introduzione della Tobin Tax, una tassa proposta diversi anni addietro dall'economista Tobin.

Tobin prospettò l'opportunità di introdurre una tassa molto lieve sui movimenti speculativi di capitale a livello internazionale al fine di porre un limite agli effetti distruttivi di questi movimenti rispetto all'economia, come dire, reale. Il problema, in altri termini, è questo: l'integrazione internazionale dei mercati finanziari determina il fatto che ogni giorno una massa spaventosa di denaro si sposta seguendo le occasioni di profitto immediato con l'effetto di mettere a rischio le attività produttive e di sottrarre agli stati nazionali ogni possibilità di avere una propria politica economica. Come si vede, la Tobin Tax si propone di riequilibrare il rapporto fra capitale finanziario, capitale industriale e stati nazionali e di favorire un capitalismo organizzato contro i caratteri distruttivi del capitalismo stesso.

Al fine di favorire l'introduzione della Tobin Tax sono nati in molti paesi comitati che si chiamano "ATTAC" e che raccolgono economisti, sindacalisti, parlamentari, intellettuali ecc.. A questi comitati aderiscono esponenti di varie anime della sinistra ed anche della destra attenta agli interessi nazionali come nel caso di alcuni gollisti francesi.

Alcuni settori dell'estrema sinistra hanno, da qualche tempo, iniziato a prospettare un utilizzo della Tobin Tax a fini più radicali rispetto all'ipotesi originaria. L'idea che prospettano è abbastanza semplice. La Tobin Tax garantirebbe agli stati nazionali risorse straordinariamente consistenti che permetterebbero di garantire a tutti i cittadini un dignitoso reddito di cittadinanza a prescindere dal fatto se abbiano o meno un lavoro. Questo reddito avrebbe una serie di effetti assolutamente deliziosi visto che libererebbe le persone dall'obbligo al lavoro salariato, renderebbe necessario garantire retribuzioni consistenti, favorirebbe lo sviluppo di un settore autogestito della vita sociale visto che ognuno potrebbe scegliere l'attività che gli interessa, ridurrebbe la criminalità, permetterebbe di ridimensionare il tradizionale intervento statale nella società ecc.. Vivremmo, insomma, in una sorta di paese di cuccagna.

Ad una riflessione più attenta sorgono, però, alcuni dubbi:

- il capitale industriale ed il capitale finanziario non sono due entità separate e non si può colpire l'uno senza colpire l'altro;

- non si vede come gli stati nazionali possano porsi l'obiettivo di colpire quello stesso modello capitalistico che hanno contribuito a favorire e che ha il potere di schiacciare ogni singolo stato nazionale senza troppi sforzi;

- solo un super stato che unificasse almeno l'area sviluppata economicamente del pianeta potrebbe porsi un obiettivo del genere e quest'ipotesi, oltre a non essere desiderabile in sé, è altrettanto difficile da realizzarsi del comunismo libertario;

- per spingere gli stati a combattere il dominio del capitale mondiale sarebbero necessarie lotte e movimenti di straordinario rilievo e se questo movimenti si daranno, come speriamo, non si vede perché dovrebbero limitarsi a premere sugli stati in luogo di combatterli;

- se, comunque, una qualche forma di tassazione sulla speculazione finanziaria internazionale verrà imposta e funzionerà l'effetto che potrà avere, nel migliore dei casi, sarà quella di porre un limite a questa stessa speculazione con l'effetto che le entrate fiscali degli stati non sarebbero affatto spropositate e non si determineranno affatto le condizioni per garantire il reddito di cittadinanza.

Al fine di argomentare quest'ultima affermazione mi limiterò a far rilevare che la logica della Tobin Tax è chiara; una lievissima tassa su di ogni movimento internazionale di capitali non colpirebbe i movimenti fisiologici di capitale a livello internazionale ma solo quelli speculativi. In altri termini colpirebbe quei capitali che si muovo decine o centinaia di volte all'anno da un paese all'altro. Si pensa che sia possibile imporre questa tassa senza troppe opposizioni appunto perché sarebbe lievissima. Ma una tassa lievissima, ripetuta decine o centinaia di volte all'anno, diventa assai gravosa. Di conseguenza le speculazioni più azzardate si ridurrebbero straordinariamente e si realizzerebbe il vero fine della Tobin Tax ma non la conseguenza che gli apologeti di sinistra di questa misura si aspettano e cioè il rastrellamento dolce di immense risorse sottratte al grande capitale per garantire il benessere a tutti.

Insomma, se tutta l'ipotesi dei seguaci di Tobin funzionasse si sarebbe ridato un certo ordine al capitalismo mondiale che ha, effettivamente, caratteri autodistruttivi che preoccupano anche settori delle classi dominanti ma non si sarebbe ottenuto altro.

Le proposte sin qui esaminate hanno interessato soprattutto gruppi di intellettuali di sinistra, soprattutto economisti, che vedono nella campagna per la Tobin Tax e, nella versione più estrema. nella proposta del reddito di cittadinanza uno strumento per ridare vita ad un "progetto politico generale" che effettivamente alla sinistra, schiacciata dall'egemonia neoliberale, manca da molti anni. Essi, in fondo, si autoattribuiscono un ruolo tradizionale di consigliere del principe.

Per amor di verità, alcuni fautori del reddito di cittadinanza portano un argomento inconfutabile a sostegno delle loro posizioni quando rilevano che le attuali lotte immediate dei lavoratori e dei disoccupati hanno un carattere aziendale, locale, categoriale, sono frammentate, stentano a coordinarsi, sovente assumono derive corporative o peggio ecc.. Ma, se anche questa valutazione non è priva di fondamento, sembra singolare l'idea che le difficoltà del movimento di classe possano essere risolte mediante una proposta arguta di politica economica..

L'articolo di Peter Schrembs sul reddito di cittadinanza segnala, in maniera a mio parere condivisibile, alcune critiche a questa proposta che mi sembrano essere essenzialmente due:

- una politica economica basata su questa misura presuppone il capitalismo e lo stato;

- in ogni caso sarebbe possibile solo nell'area centrale del capitalismo a scapito della grande maggioranza dell'umanità che sarebbe esclusa dal paese di cuccagna che vivremmo noi.

Vi è una tesi dell'articolo che, invece, ritengo non condivisibile. Peter Schrembs teme che il capitalismo possa essere effettivamente interessato a creare una società di consumatori parassiti il cui unico scopo nella fine sarebbe di garantire la realizzazione del profitto capitalistico.

Questa tesi mi sembra non sostenibile sia sulla base dell'esperienza che della valutazione della natura sociale del modo di produzione capitalistico.

Effettivamente la società capitalistica vede la crescita di settori della società che hanno un reddito e non producono ricchezza sociale.

Per un verso si tratta di quello che possiamo definire il ceto medio addetto all'inquadramento delle classi subalterne che ha avuto una crescita spaventosa negli ultimi decenni anche se ogni tanto viene potato.

Per l'altro si tratta di settori proletari che ricevono una qualche forma di sussidio al fine di impedire esplosioni sociali.

Nel primo caso si tratta di un'area sociale legata al fatto che il modo di produzione capitalistico non funziona, come dire, spontaneamente ma deve essere imposto con meccanismi coercitivi o dallo stato o direttamente dalle imprese: guardiani e poliziotti, preti e psicanalisti, capi reparto e consulenti aziendali ecc.. Dal punto di vista capitalistico questa varia umanità è certamente un costo ma un costo necessario a far funzionare la produzione e la distribuzione delle merci. Quando alcuni settori di questo universo crescono oltre misura, divengono nocivi e disfunzionali ecc. si provvede a ridimensionarli in qualche modo, basta pensare alla crisi del ceto politico italiano negli anni di tangentopoli o al licenziamento di quadri industriali in momenti di crisi negli USA.

Nel secondo caso, si tratta di un problema di ordine pubblico e di consenso oltre che di sostegno indiretto all'economia capitalistica. Ad esempio, garantire una qualche forma di reddito per qualche tempo ai lavoratori "in esubero" rende più agevoli i licenziamenti, inventare occupazioni fittizie sottopagate per fette di disoccupati permette di tenere sotto controllo aree sociali che altrimenti diventerebbero esplosive ecc..

Politiche statali di sostegno al reddito, in altri termini, sono, entro certi limiti, funzionali all'ordinato funzionamento dell'economia e della società e garantiscono potere e privilegi al ceto politico, agli apparati sindacali ecc..

È bene, comunque, ricordare che le politiche sociali dello stato sono finanziate con la pressione fiscale sui salari e che, di conseguenza, sono, nella migliore delle ipotesi, un meccanismo di assicurazione sociale generalizzata che ridistribuisce reddito all'interno del lavoro salariato.

Ma queste politiche vanno in crisi quando entrano in rotta di collisione con gli interessi dell'accumulazione capitalistica come dimostrano le attuali politiche neoliberali che colpiscono, e non a caso, soprattutto i settori più deboli della società mentre risparmiano sostanzialmente il ceto medio addetto all'inquadramento sociale.

Se l'evidenza dei fatti ci dimostra che nulla è più lontano dalle attuali politiche del padronato e degli stati dell'idea di garantirci un reddito a prescindere dal lavoro, si può escludere però che questo orizzonte radioso possa realizzarsi nel medio periodo?

Fatto salvo che il futuro riposa sulle ginocchia degli dei, escluderei questa ipotesi per una ragione che ritengo difficilmente contestabile.

Un reddito di cittadinanza consistente e garantito a tutti distruggerebbe la sottomissione al lavoro della popolazione, quella sottomissione che è vitale per il modo di produzione capitalistico. Non si vede, infatti, per quale motivo delle persone già retribuite dovrebbero svolgere lavoro pesanti, nocivi, ripetitivi e subalterni a meno di non ricevere retribuzioni altissime ed intollerabili per il padronato.

Una cosa sono delle limitate politiche di integrazione sociali che già oggi esistono e che possono avere una ripresa nel futuro, altro è il reddito di cittadinanza e ritengo che la differenza sia evidente.

D'altro canto Peter Schrembs sembra ritenere che una deriva storica del genere potrebbe fondarsi sullo scaricare nei paesi periferici tutti i lavori pesanti, sottopagati ecc. lasciando alle metropoli del capitale un ruolo di direzione e coordinamento. Anche in questo caso, che ritengo decisamente improbabile per ragioni che non ho lo spazio di argomentare, non si vede perché le classi dominanti dovrebbero mantenere qualche centinaio di milioni di parassiti a spese, certamente, delle masse proletarizzate delle periferie ma anche dei propri profitti.

Per concludere, l'articolo in questione pone alla discussione diverse questioni interessanti ed ho la sensazione che alcune delle affermazioni del nostro compagno si basino su di una riflessione della quale un articolo non può rendere conto pienamente. Sarebbe, quindi, opportuno che temi del genere vedessero un interesse puntuale da parte nostra.

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