unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n.30 del 3 ottobre 1999

Dibattito
L'ondata neoliberale

Sul precedente numero di UN ho cercato di individuare le radici sociali dell'ondata "libertaria" che oggi ci delizia [1]. Ritengo possa valere la pena di esaminare questo fenomeno dal punto di vista delle posizioni politiche o, se si preferisce, delle culture politiche.

Come è noto, la sinistra statalista, nelle democrazie occidentali, ha occupato uno spazio politico e sociale rilevante premendo per l'espansione del ruolo dello stato nel governo delle relazioni sociali e dell'economia, In estrema sintesi, si può dire che la sinistra ha operato per statalizzare la società e per socializzare lo stato.

In questo percorso la sinistra ha avuto interlocutori di vario genere sino a settori della destra nazionalista tesa a difendere, appunto, l'interesse dell'industria nazionale dalla pressione del mercato mondiale e del mondo cattolico volto ad usare lo stato come strumento per governare il conflitto di classe e per ricostruire quel legame sociale (famiglia, comunità locale ecc.) che il mercato tende a distruggere. Persino componenti importanti del padronato hanno visto con favore l'accrescersi dell'azione dello stato sia come finanziatore e protettore delle imprese che come garante del legame sociale.

Intorno all'intervento pubblico nell'economia si è creata una vera e propria borghesia di stato ed una corrispondente classe media che vivono e prosperano grazie al controllo della spesa pubblica ed all'occupazione di ruoli di potere ad essa connessi.

La statalizzazione della società, i realtà, non ha affatto prodotto, nè lo poteva, una socializzazione dello stato. Al contrario, uno dei suoi esiti evidenti è la spoliticizzazione della società e il consolidarsi di un ceto politico e sindacale con autonome risorse, legittimato dall'occupazione delle funzioni amministrative, tendenzialmente strutturato come sottosistema autoreferenziale.

In altri termini e in maniera solo apparentemente paradossale, la statalizzazione della società ha favorito lo strutturarsi e l'affermarsi dei privati interessi di un ceto politico allargato sino ai vertici burocratici ed ai boiari di stato ed una riduzione della politica a tecnica di gestione dell'esistente.

Credo anche sia evidente che il modello sociale sopra, assai schematicamente, disegnato avesse, ed abbia, limiti di genere diverso. Mi limiterò a ricordarne alcuni:

- i costi crescenti di funzionamento legati all'espansione di burocrazie e clientele e il fatto che questi costi tendono ad essere anelastici. Detto più rozzamente, una clientela od un apparato burocratico sono più facili da costruire che da smantellare ed una volta che esistono non servono più al loro obiettivo specifico, che è quello di creare consenso, con l'effetto che è necessario creare nuove clientele e nuovi apparati burocratici in una spirale insostenibile per l'equilibrio di un sistema capitalistico efficiente;

- il suo legame strettissimo con il tradizionale stato nazionale e la scarsa capacità di funzionare nell'ambito di un economia mondiale integrata fortemente. Ritengo sia, infatti, evidente che la circolazione delle merci e dei capitali richieda burocrazie efficienti e non pletoriche e condizioni favorevoli ai capitali che si cerca di attrarre le prima delle quali sono una ridotta pressione fiscale e la deregolamentazione del mercato del lavoro;

- la fragilità a fronte delle innovazioni produttive e tecnologiche determinate dall'attuale rivoluzione interna al modo di produzione capitalistico. L'informatizzazione dei processi di lavoro e di comunicazione, infatti, mette in evidenza la scarsa produttività degli apparati burocratici tradizionali in maniera indiscutibile e dimostra che se ne può fare, in gran parte, a meno con un notevole risparmio.

Ila corrente culturale e politica che chiamiamo neoliberismo coglie queste contraddizioni e questi limiti e si afferma sulla base di un discorso abbastanza semplice ed efficace:

- si deve ridurre l'intervento statale e liberare risorse da riconsegnare alla società sotto forma di riduzione della pressione fiscale;

- le imprese liberate dalla pressione dello stato aumenteranno la loro vitalità ed i loro profitti con l'effetto di accrescere l'occupazione ed il gettito fiscale cosa che permetterà di ridurre ulteriormente le tasse;

- i meccanismi di autoregolazione sociale permetteranno alle imprese ed agli individui più produttivi di accrescere le proprie risorse con l'effetto di aumentare la ricchezza sociale generale e di avvantaggiare anche i soggetti più deboli.

Dove le politiche neoliberiste sono state applicate si sono notati effetti alquanto diversi da quelli prospettati dagli apologeti del neoliberismo stesso:

- la ricchezza sociale si è concentrata in un segmento limitato della popolazione;

- la classe media (che pure aveva volenterosamente sostenuto le politiche neoliberiste) è stata ridimensionata seccamente favorendo un ridisegnarsi della piramide sociale che ha un vertice sempre più sottile ed una base sempre più larga;

- le spese per il settore militare e quello dell'ordine pubblico si sono accresciute con l'effetto di non ridurre più che tanto la spesa pubblica e di accrescere il controllo statale sulla società;

- l'entrata in crisi del legame sociale, la crescita conseguente della microcriminalità, l'insicurezza generalizzata hanno favorito la richiesta di politiche autoritarie ed il lancio di campagne per il recupero di culture tradizionali dal punto di vista dell'etica familiare, sessuale ecc..

Gli apologeti del neoliberismo o si limitano a negare l'evidenza o affermano che i prezzi che la società paga per l'applicazione della cura da loro proposte sono transitori o ritengono che quanto avviene sia il prodotto di politiche neoliberiste troppo caute e che si deve proseguire su questa via con un impegno maggiore.

In altre parole, i cattivi risultati delle politiche neoliberiste sarebbero il risultato di un destino cinico e baro e della resistenza dei tradizionali ceti burocratici e della persistenza nella working class di una mentalità vecchia e refrattaria alle innovazione che le politiche neoliberali impongono.

Può a, questo punto, valere la pena di domandarsi se non vi siano delle contraddizioni logiche interne alle posizioni neoliberali e se queste contraddizioni ci permettono di comprendere meglio il loro ricorrente fallimento.

Andiamo per ordine:

- il discorso neoliberale si pone come una critica radicale alle oligarchie politiche e burocratiche che frenano le imprese e gli individui nella lotta per l'autoaffermazione;

- alle garanzie tipiche dei modelli sociali corporativi i neoliberali oppongono l'affermazione dell'individuo sulla base delle capacità e del merito;

- d'altro canto, l'individuo astratto e privo di determinazioni non gode dell'attributo dell'esistenza mentre esiste l'individuo come essere storico e sociale;

- l'individuo realmente esistente non entra nel libero mercato in condizioni pari a quelle di tutti gli altri e non viene affatto premiato in proporzione ai suoi meriti;

- di fronte a questa banale verità i neoliberisti sono costretti a porre al centro delle loro proposte un modello convenzionale (il libero mercato che valorizza il merito) a fronte di una realtà storica che registra disparità notevoli di partenza fra gli individui e il fatto che i gruppi sociali privilegiati sono in grado di definire le regole della gara alla quale partecipano garantendosi la vittoria;

- paradossalmente l'unico liberismo reale possibile presupporrebbe l'abolizione della proprietà ereditaria e la garanzia ad ogni individuo di risorse pari rispetto a tutti gli altri per permettergli di affermarsi al meglio;

- visto che un'ipotesi del genere è palesemente non plausibili i neoliberisti sono costretti a riconoscere che la disparità delle ricchezze derivante da privilegi ed handicap di partenze ha caratteri analoghi alle differenze di altezza o bellezza che vi sono fra i singoli individui;

- in buona sostanza il modello neoliberista deve porre la disparità sociale come un dato naturale che precede la valutazione del merito e delle capacità dei singoli.

Questa contraddizione interna al discorso neoliberale non appare necessariamente come evidente alla massa dei membri delle classi subalterne soprattutto se la pressione ideologica di quelle dominanti è forte a sufficienza per imporre una visione del mondo omogenea alla propria. Vi è, però, un deficit di legittimità nel discorso neoliberale che viene alla luce nel momento in cui le politiche del neoliberalismo storicamente esistente dispiegano i loro effetti distruttivi sulle condizioni di vita della working class e, conseguentemente, sul legame sociale.

I privilegi delle classi dominanti rischiano di apparire come intollerabili alla massa della popolazione con effetti dirompenti. È in questa contraddizione che si inserisce, per un verso, il discorso delle correnti favorevoli a forme di intervento pubblico nell'economia e nel governo delle relazioni sociali e, per l'altro, una serie di ipotesi politiche apertamente reazionaria.

Da una parte abbiamo componenti (neosocialdemocratiche, cristiano sociali, democratico sociali, ecologiste ecc.) che cercano di introdurre elementi di governo del quadro sociale volti a garantire alcuni diritti minimi e relazioni sociali non troppo conflittuali.

Dall'altra si sviluppano correnti populiste, nazionaliste, xenofobe che pongono l'accento sulla necessità di ricostruire il legame sociale su base etnica, nazionale, religiosa al fine di garantire sicurezza, ordine e identità ad individui atomizzati dal procedere stesso dell'economia capitalistica.

Il neoliberalismo, insomma, deve fare i conti con il riapparire degli avversari e concorrenti che credeva di avere spazzato dalla scena in un meccanismo a pendolo abbastanza tipico con le classi dominanti che oscillano fra ricette neoliberiste e richieste di interventi pubblici a seconda dell'occasione, della contingenza generale e delle questioni poste in gioco.

Viene da domandarsi, a questo punto, come è possibile che degli anarchici guardino con simpatia alle posizioni neoliberali. Ce la potremmo cavare riconoscendo che gli anarchici sono, appunto, anarchici e che pensano e fanno cose assai diverse l'uno rispetto all'altro ma sarebbe una risposta che non direbbe nulla.

Ritengo che l'accento vada posto, se vogliamo comprendere quest'ordine di questioni, su di una serie di fatti storicamente rilevanti che meriterebbero una più ampia riflessione:

- il secolo che volge alla fine ha visto o il fallimento delle rivoluzioni che l'hanno caratterizzato e la nascita dei fascismi o la loro "vittoria" e l'affermarsi di regimi autoritario di vario tipo e specie, in primo luogo il bolscevismo;

- ai regimi autoritari di destra e di sinistra, unificati con la definizione di totalitarismo, si sono opposte, quando si sono opposte, le democrazie occidentali o liberali che dir si voglia;

- non vi è qui lo spazio per dilungarsi sui caratteri di questa opposizione e sul fatto che è stata tutt'altro che lineare, in questa sede assumiamo l'ipotesi che vi sia stata effettivamente;

- nel senso comune ha teso ad affermarsi l'opposizione fra regimi liberali e stati autoritari come unica opposizione dotata di senso almeno per quel che riguarda l'Europa, l'Australia e le Americhe;

- per diverse ragioni vi sono stati anarchici che hanno ritenuto accettabile lo schierarsi rispetto a questa opposizione e, in particolare, anarchici che hanno ritenuto e ritengono il modello politico e sociale occidentale il male minore,

- sul piano sociale il loro anarchismo ha teso e ridursi ad una sorta di liberalsocialismo mentre sul piano culturale hanno continuato a rivendicare il maggior numero possibile di libertà per quel che riguarda gli stili di vita;

- nei decenni passati le democrazie liberali hanno mostrato, per quel che riguarda, appunto, gli stili di vita una tolleranza ed una plasticità notevoli anche perché gli stili di vita "trasgessivi" hanno aperto interessanti spazi di mercato e si sono dimostrati tutt'altro che nocivi all'ordine sociale;

- è, di conseguenza, comprensibile che gli anarchici occidentalisti abbiano potuto vedere nell'evoluzione della società occidentale la riprova della giustezza delle loro ipotesi;

- si è consolidato, di conseguenza, un anarchismo che rimuove la contraddizione fra le classi e la critica radicale del ruolo dello stato ed anzi questo tipo di anarchismo è l'unico che goda di buona stampa, simpatie fra le persone argute, legittimità sociale.

Sarebbe un errore attribuire all'anarchismo liberaleggiante ed al liberalismo anarchicheggiante una qualche responsabilità nelle difficoltà che trovano i compagni che si riconoscono nel progetto della rivoluzione sociale a fare la loro parte. Più ragionevolmente, ritengo, che sia difficile tenere assieme l'apprezzamento della filosofia sociale dominante e la rivendicazione della tradizione anarchica. Ma questo, come si suol dire, non è un problema nostro.

Guido Giovannetti


[1] Guido Giovannetti "Liberali, liberisti, 'libertari'" in UN numero 29, 26 settembre 1999



Contenuti UNa storia in edicola archivio comunicati a-links


Redazione: fat@inrete.it Web: uenne@ecn.org